Monti e la concezione provvidenziale della democrazia

Monti ha fatto intendere che, se lui non ottenesse ciò cui brama – continuare a fare il Presidente del Consiglio – allora, nel nome naturalmente dei mercati, potrebbe essere necessaria una nuova manovra: in altri termini, nuove tasse ai soliti che già le pagano e pure oltre misura. Saremmo, sì, veramente curiosi di sapere cosa pensa Giorgio Napolitano che, oltre a essere stato l’artefice dell’operazione del governo tecnico è stato il più caloroso e autorevole sostenitore di un esecutivo con alla guida un uomo arrogante subito definitosi il salvatore della patria. Crediamo che Napolitano dichiarazioni come quelle ultime di Monti da questi non se le sarebbe mai aspettate. La campagna elettorale, per il formale riserbo del silenzio che gli impone, gli permette di cavarsela a poco prezzo, ma essendo il presidente della Repubblica un uomo totus politcus, con il realismo peculiare che gli proviene dalla militanza di una vita, non è difficile pensare che non sia d’accordo con colui che ha voluto addirittura senatore a vita. Un onore che non venne riconosciuto, quando presiedette il Consiglio dei Ministri, nemmeno a Ciampi che non solo fece bene e poi, giustamente, venne chiamato al Quirinale segnando un settennale che sarà richiamato nella storia d’Italia.

Per quanto le dichiarazioni di Monti abbiano sollevato critiche di stile e di merito – allora, i conti sono in ordine, come si sbandiera, oppure no? – non si è tuttavia registrata quell’indignazione che sarebbe stata necessaria perché le parole di Monti suonano come un sottile ricatto. E se in campagna elettorale ci si può pure allargare, ciò al Presidente del Consiglio non è permesso. Qui siamo al punto che fa emergere la crisi profonda della Repubblica. Essa, cioè, è arrivata al punto di avere un Presidente del Consiglio che non solo si ritiene votato quale dono provvidenziale offerto al Paese a fronte del fallimento di tutto il panorama politico, ma si identifica talmente con tale visione e concezione di se stesso tanto da legare il futuro del Paese alla sua stessa persona. A dire il vero nemmeno i cinque veri e unici statisti che la storia italiana ha avuto – Camillo Cavour, Giovanni Giolitti, Ferruccio Parri, Alcide De Gasperi e Giovanni Spadolini – sarebbero giunti a tanto, ma un’idea del genere nemmeno li avrebbe sfiorati.

Se grattiamo infatti le dichiarazioni del presidente Monti vediamo emergere un dato che cozza con i fondamenti laico-costituzionali della Repubblica e con la democrazia politica sulla quale essa si basa, o meglio, per quanto concerne l’ultimo lungo interminabile  periodo, essa dovrebbe basarsi. Così, passo dopo passo, siamo passati dalla cancellazione dei partiti quali detentori del “mandato politico” a una specie di bipolarismo che ha generato antipolitica, personalismo e potenzialità cesaristiche, a ben altro: alla concezione provvidenziale della democrazia e del governo del Paese. Altro che spread, Europa, mercati e compagnia cantando; la verità è che la crisi repubblicana sta andando in metastasi. 


Paolo  Bagnoli

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