
Firenze – Non chiedete a un banchiere di raccontarvi il retrobottega della sua professione, ovvero le ragioni delle sue scelte, le dinamiche fra i colleghi o qualche episodio che sollevi la curiosità o l’indignazione. Le banche sono già troppo impopolari per fornire materia di scandalo a un’opinione pubblica ostile. Aspettatevi piuttosto che vi offra qualche squarcio di vita vissuta e qualche circostanza sulla storia della finanza italiana e che lo faccia con un sereno distacco, un humor spesso dissacrante su simboli, miti e uomini illustri dall’alto della sua esperienza. Lui, il finanziere, in fondo ha messo le mani nelle vicende che hanno condizionato la vita di tante persone e che cosa è la saggezze se non la conoscenza disincantata della natura umana?
Nel racconto autobiografico di Oliviero Pesce, banchiere di lungo corso che ha guidato istituti finanziari in tutto il mondo, tuttavia, si coglie perfettamente la linea che ha guidato la sua attività professionale. Del resto non poteva essere diversamente nel momento in cui l’autore ha attraversato i fatti più o meno drammatici, più o meno oscuri della finanza italiana e internazionale.
Pugliese, Pesce all’inizio della carriera ha lavorato per la Banca Mondiale esperto dei problemi dello sviluppo, entrando poi nella Banca nazionale del Lavoro, per dirigere società di investimento e banche estere dopo un’esperienza ai vertici del Crediop, il Consorzio di Credito per le Opere pubbliche.
Una cavalcata lunga mezzo secolo fra l’Italia, l’America, la Francia e il Regno Unito confrontandosi dall’interno con eventi e personaggi positivi e negativi a cavallo dei due secoli. Così i protagonisti del mondo finanziario si mescolano con quelli che hanno caratterizzato il mondo della politica, dello spettacolo, della cultura e dell’arte. “Visti da vicino”, come suonava il titolo dei diari di Giulio Andreotti.
Del resto era questo l’obiettivo dell’autore che ha accompagnato la sua professione con lo studio, la saggistica, la poesia: una sorta di romanzo di formazione è l’”Educazione di un banchiere sbalordito” (Ricordi propri e altrui, alcuni forse apocrifi, quasi in forma di romanzo, è il sottotitolo, Edizioni Clichy).
Nel racconto ci sono notazioni che nella loro semplicità colgono perfettamente i passaggi spesso traumatici della storia italiana. Come la caratterizzazione del conflitto generazionale degli anni 60 attraverso l’uniforme simbolica indossata dai giovani, il loden e il montgomery o l’eskimo: “Il loden adesso lo portiamo tutti, i montgomery sono scomparsi. Sono altri adesso a tirare bombe, usare kalashnikov, farsi saltare in aria, farci saltare in aria. Giovani europei senza futuro si arruolano da quelli. Poi non sanno più come uscirne”.
Fra tanti aneddoti ed episodi di una vita vissuta intensamente, il lettore attento coglie un messaggio preciso. “Si sfoglia, si leggono estratti, alcune critiche, si parla reticenti senza esporsi troppo – scrive – Il vero problema è che ormai così si affronta la vita, sempre più complessa, si prendono decisioni, provvedimenti. Domina l’eterogenesi dei fini”.
C’è un antidoto a tutto ciò? La risposta di Pesce è pessimista. Esiste tuttavia un modo per rendere l’esistenza degna di essere vissuta: affrontarla con la profondità e la gravità della conoscenza e nello stesso tempo con la leggerezza di un spirito libero.