
Firenze – Una sorta di esemplificazione della grande quantità di variazioni nelle quali si articola il genere thriller offerto dalla collana Blogging di Stampeditore by Thedotcompany. C’è la storia di un singolare scrittore di detective’s story che inserisce di nascosto le sue opere negli scaffali di una libreria, un’altra si ispira agli enigmi più o meno esoterici, alla Dan Brown, in un museo di Fiesole e ancora una serie di atroci fatti di sangue di criminalità mafiosa che si svolge fra il Mugello e la Campania; e infine anche un traffico di droga, la cui centrale è in una minuscola frazione vicina a Prato.
Con “Il cancello sul lago” di Lino Mastromarino si lascia la Toscana e ci si sposta al nord fra Parma, Torino, Milano e fino alla Svizzera, sul lago di Lugano al quale si riferisce il titolo. E si offre un’altra variazione sul tema. Ciò che muove la mano dell’assassino, o degli assassini, certo è sempre lo stesso: il potere nelle sue diverse espressioni, il denaro, la ricchezza, il sesso, che crea odi fatali e vendette o, al contrario, il calcolo malvagio del proprio tornaconto che non esita a togliere di mezzo chi ostacola disegni cinici e ambizioni senza controllo.

Lino Mastromarino: questo è il suo primo romanzo, cui ne seguiranno sicuramente altri vista la positiva accoglienza della prova d’esordio
Cambia il contesto culturale, l’ambiente: qui siamo nel mondo-azienda e del potere economico, dove la torta da spartirsi è sostanziosa e i personaggi si muovono in un sistema di regole e di principi che puntano a raggiungere un solo obiettivo, quello della crescita del fatturato e in generale della floridezza dell’impresa. Un’estate di qualche anno fa, il Sole 24 Ore prese l’iniziativa di abbinare al giornale gialli economico-finanziari di autori internazionali da leggere sotto l’ombrellone che riscossero un certo successo.
In quella mini collana estiva ci sarebbe stato benissimo anche “Il cancello sul lago”, soprattutto perché l’autore, per trent’anni ai vertici di PricewaterhouseCoopers, il più grande network di servizi di management per le imprese del mondo, è riuscito a trasferire le sue competenze e le sue esperienze dello Strategy e del management consulting, esperto soprattutto di progetti di Corporate Transformation, e la sua conoscenza del mondo delle piccole e medie imprese (ha scritto anche un libro sul tema dei distretti industriali per il Sole 24 Ore, nel 2012), in un intreccio ricco di suspense e di colpi di scena con una certa perizia da narratore tutt’altro che alle prime armi.
I materiali principali del suo racconto provengono ovviamente dai momenti critici che attraversa un’azienda nella sua vita, il principale di tutti il passaggio generazionale: una transizione tutt’altro che facile, tutt’altro che scontata dal vecchio leader – grande manovratore di risorse e di uomini – ai figli, ai quali ha trasmesso quelli che pensava fossero i valori (e disvalori, purché funzionali al risultato), la ricetta per guidare un’azienda medio grande in un mondo sempre più competitivo ed esposto a crisi periodiche sempre più frequenti.
Ma ci sono tante diverse condizioni di figlio, e chi ha tra loro più degli altri non solo il diritto ma anche le qualità per ereditare la guida dell’azienda? I figli naturali sono in grado di ereditare e proseguire con successo l’opera del padre? Il duello mortale che si svolge davanti agli occhi del lettore è come un gioco di specchi e di ombre: fino alla fine non si sa chi è il buono e chi è il cattivo. Non si sa se chi ostenta bontà e disponibilità non sia davvero colui che muove i fili di tutta la rappresentazione. E se lui, Luigi, il vecchio capo, sia riuscito davvero a individuare e a proteggere il delfino dagli appetiti degli altri.
Il protagonista che scrive in prima persona viene coinvolto in una sorta di caccia al tesoro, di salto in un pozzo nel quale non si riesce mai vedere il fondo, pieno di gente che fa il doppio gioco. La forma, la superficie nasconde una realtà di sentimenti e azioni completamente diversa. Una delle principali qualità del romanzo di Mastromarino è il confronto fra la realtà visibile, apparentemente senza coinvolgimento emotivo, freddamente razionale, che favorisce l’andamento degli affari, e quella non visibile, che dall’azienda deve restare fuori, ma che alla fine è quella che decide il destino degli attori in campo.
Dietro la bellezza e la raffinatezza che offre il denaro c’è il lato oscuro nel quale la competizione inoculata sempre da Luigi nei suoi figli come cardine sul quale far crescere la sua azienda diventa un duello all’ultimo sangue. Fra i pilastri della struttura narrativa del libro c’è anche la capacità dell’autore di utilizzare i precetti di una dottrina di management ormai superata che il vecchio patriarca trasmette ai figli confrontandola con i cambiamenti di una formazione manageriale nel nuovo millennio, con le nuove sensibilità e con una diversa filosofia di vita del fattore umano nelle giovani generazioni.
“Nella sua ottica, tenere alta la tensione tra i collaboratori più stretti era positivo per l’azienda – scrive Andrea, il narratore protagonista ricordando i precetti del padre – Oggi alla luce delle esperienze vissute considero tale pratica controproducente, per il solo fatto che defocalizza: fa usare le migliori risorse intellettuali per obiettivi ignoti, inutili”. Altre raccomandazioni del patriarca appaiono invece ancora valide: “Il segreto per avere successo consiste nel metterci la stessa determinazione sia quando si fa qualcosa che piace, sia quando invece si è costretti a cimentarsi con qualcosa che non si gradisce. Lavoro del cazzo impegno massimo, lavoro interessante, dialogo e controllo”.
Ma anche i precetti non hanno valore se non si mettono alla prova dell’esperienza della vita, dove nulla è come appare, così come il rapinatore Roman in carcere è un buon uomo che l’emarginazione e la povertà ha spinto a violare la legge. “Si vive una vita frenetica nella quale la competizione ha un ruolo centrale, si deve vincere, andare avanti, e per far parte del gioco, devi sottostare o meglio devi fare tuoi degli stereotipi che alla fine non sono altro che un insieme di regole che devi forzatamente rispettare per restare in gara – riflette ancora Andrea -. La realtà però sembrava essere un’altra. Per esempio, la persona che ha commesso un reato non è, per definizione, sempre cattivo: potrebbe essere come Roman solo un disperato, un giocatore che ha commesso un fallo e che vuole rientrare in partita dopo aver subito la giusta ma temporanea espulsione. Peccato però che il suo allenatore lo consideri ormai finito”.