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Storia di Bruno Borghi, il prete operaio figlio del suo tempo

Firenze – Bruno Borghi, il primo prete operaio d’Italia anzi l’operaio-prete come preferiva essere chiamato. E’ stato un personaggio significativo nella galassia delle figure che dettero vita alla stagione del cattolicesimo del dissenso fiorentino, di Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, Giorgio la Pira, David Maria Turoldo e di tanti altri, ma il suo nome compare raramente nelle ricostruzioni di quelle vicende e quasi mai accompagnato dal racconto della sua vita.

Eppure, dal punto di vista della sofferta e coerente testimonianza della sua fede e delle sue convinzioni, la sua storia non è affatto marginale rispetto a quella del suo amico Milani. La differenza sta nel fatto che Borghi ha vissuto nel corpo e nell’anima, giorno per giorno la sua appassionata battaglia per realizzare una “Chiesa veramente profetica, assemblea dei figli di Dio, popolo di Dio in cammino verso la liberazione di ogni schiavitù”, senza lasciare riflessioni scritte di una certa rilevanza. Ha incarnato dolorosamente e sinceramente i conflitti del suo tempo ed è  per questo che l’approccio alla sua figura risente ancora delle contraddizioni e delle divisioni politiche ed ideologiche di quegli anni.

E’ stato necessario perciò un lungo e accurato lavoro di ricerca, di consultazione di archivi e di interviste con coloro che lo hanno conosciuto, per arrivare alla pubblicazione di una prima ampia e documentata biografia. L’ha scritta Antonio Schina ed è stata pubblicata dal Centro di Documentazione Pistoia come quaderno numero 7 della collana Antimoderata diretta da Antonio Benci.

Figlio di Amedeo, barrocciaio dell’Impruneta e di Armida Fagnoni che ha dovuto lavorare duro per tirare su il figlio dopo la morte prematura del marito, Bruno aveva una capacità di scrittura forte ed espressiva come testimoniano le sue lettere e le sue prese di posizione pubbliche. Lo conferma  anche  Milani con il quale ha condiviso alcune delle grandi battaglie per il rinnovamento della Chiesa in nome della realizzazione piena e senza compromessi del  messaggio evangelico.

Fino alla morte del prete di Barbiana nel 1967, i due si consultavano costantemente e Borghi non esitava a esprimere il suo dissenso su alcuni aspetti dell’opera dell’altro. Essi partivano da due visioni diverse, si può dire da due strategie diverse, nella  missione di stare vicini agli ultimi, ai poveri. Il primo decide fin dai primi anni del suo sacerdozio (era entrato in seminario nel 1937) di entrare in fabbrica e di vivere la sua vocazione accanto agli operai (prima alla Franchi, poi al Pignone, infine alla Gover, prima licenziato poi riassunto, fino al 1976).

Parte da qui – e sarà veramente il filo conduttore della sua esistenza, senza mai essere smentita o messa da parte,  scrive Schina –  “questa centralità della realtà operaia, mai vissuta interamente nella prospettiva del  lavoro di evangelizzazione  divenuta ben presto e prevalentemente necessità che si manifesti una soggettività consapevole da parte degli ultimi, presupposto del mutamento dello stato delle cose esistente”.

In fabbrica Borghi fa esperienza della lotta di classe per  la conquista dei diritti dei lavoratori e non abbandonerà più questo concetto e le sue declinazioni. “Sacerdote comunista” lo definisce il direttore della Nazione Enrico Mattei, ma non era affatto marxista: per lui il marxismo era “un metodo acuto di interpretare e analizzare la realtà della società borghese, dunque un metodo convincente, un’analisi acuta –ma niente di più – e poi subito aggiungeva che il testo più rivoluzionario che conosceva era il Vangelo  – scrive l’autore della biografia – L’espressione che usava spesso “i poveri del vangelo” gli pareva che racchiudesse meglio di ogni altra l’esigenza di liberazione di tutti gli oppressi del mondo”.

Don Milani aveva un respiro profetico che andava oltre il suo tempo, don Bruno Borghi fu invece un figlio del suo tempo protagonista delle lotte operaie del dopoguerra, la crisi della Pignone, quella delle Officine Galileo con l’occupazione della fabbrica che lo vide imputato di istigazione a commettere un reato, le battaglie sindacali a cavallo fra gli anni ’60 e ’70. Schina ricostruisce con ricchezza di fonti e documenti e con dovizia di particolari le vicende di quegli anni contestualizzando l’attività di Borghi ed è una delle qualità principali del suo lavoro.

Nelle numerose vite attraversate dalla sua esistenza (“così distanti e contrastanti fra loro da sembrare incoerenti”, come scrive Maria Margotti nella prefazione) , Borghi ebbe il tempo di vivere gli anni dell’entusiasmo rinnovatore della comunità cristiana e quello della “normalizzazione” da parte della gerarchia curiale. Come Milani, dopo essere stato continuamente trasferito come “supplente” da una parrocchia all’altra, gli fu assegnata quella di Quintole vicino al Galluzzo, una delle più piccole, la sua Barbiana, dove strutturò un sistema di accoglienza per i disabili sulla base di concetti di solidarietà e assistenza che solo molto tempo dopo  sarebbero entrati nelle politiche sociali pubbliche.

Rischiò più volte la sospensione a divinis fino a cercarla volontariamente andando a dire messa con don Enzo Mazzi nella piazza dell’Isolotto per solidarietà con quei sacerdoti  minacciati di quella sanzione dall’arcivescovo Florit. Si dimise da Quintole e si dedicò interamente alla vita di fabbrica. Nel 1981 prese la decisione di lasciare la Chiesa, di sposarsi e fare un figlio, decisione che fu  “la presa d’atto di una delusione ormai irreversibile nei confronti della Chiesa istituzione, che non metterà mai in discussione, nemmeno , per un momento l’essere parte della comunità cristiana”.

Morì nel 2006, a 85 anni.  Alla cerimonia funebre civile fu letta la preghiera che aveva scritto per la notte di Natale di trent’anni prima: “…aiutaci o Padre a vivere la nostra condizione di credenti in Gesù e nella sua parola. Liberaci da ogni fede nella legge, nel tempio, nel sabato e aiutaci a credere negli ultimi, nelle lotte degli sfruttati, dei torturati, della povera gente”.

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