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Van Dyck o Rubens? Storia vera di un’attribuzione contestata

Firenze – Prima di cominciare a leggere il racconto di  Carlo Titomanlio andate in fondo al volume e confrontate le riproduzione di due quadri, capolavori del barocco fiammingo, dipinti pressappoco negli stessi anni, 1627, l’uno, 1629-1630, l’altro. Il primo rappresenta la “Continenza di Scipione” ed è stato dipinto da Antoon Van Dyck; il secondo invece è di mano di Pieter Paul Rubens e raffigura “Alessandro Magno che riceve gli ambasciatori di Dario”.

Sono queste due grandi pitture le protagoniste del romanzo-saggio “Non gli ho detto del quadro di Oxford”, pubblicato da “La Casa Usher” di Firenze-Lucca, da pochi giorni in libreria. La questione, che attraversa la trama intrigante del libro e ne fa qualcosa di inconsueto nel panorama delle docu-fiction letterarie, è che  l’attribuzione delle due tele ai rispettivi artisti è il frutto del lavoro di una vita di un appassionato collezionista fiorentino, nel libro Angelo Morganti (tutti i personaggi del libro sono pseudonimi di coloro che hanno avuto un ruolo nella vicenda). E che, come sovente accade, la critica d’arte ufficiale non ha ancora accettato che un appassionato piccolo antiquario si possa permettere  di sconvolgere le certezze degli accademici britannici e, soprattutto, i severi conservatori del patrimonio artistico dell’Università di Oxford.

Fino al 1970, infatti, lo Scipione continente era di attribuzione incerta e dimorava tristemente nel corridoio di un antiquario londinese. Al punto che lo stesso antiquario (Benjamin Kahn), peraltro apparentemente convinto che si trattasse davvero di un’opera del grande pittore dei ritratti dei nobili inglesi, decise inopinatamente di cederlo per una cifra molto più corrispondente a un mobile d’epoca che a capolavoro.

Il libro comincia con una lettera del venditore al figlio, al quale racconta di aver ceduto quel pezzo di valore “forse per la sua sfacciataggine che mi metteva di buon umore o forse per uno scatto impulsivo”, senza sapere che questo ordinario contratto avrebbe condizionato la vita di un certo numero di persone. Anche perché “non gli ha detto del quadro di Oxford”, cioè che esiste un soggetto identico, Scipione che rifiuta una vergine preda di guerra per riconsegnarla al promesso sposo, nella pinacoteca della prestigiosa università con firme e controfirme di celebrati esperti britannici: opera di Antoon Van Dyck.

Chiunque altro avrebbe mollato subito sogni di gloria e fatto cassa con plusvalenza il più presto possibile, ma non il collezionista che in 40 anni di studi, ricerche, colloqui con la più grande varietà di esperti più o meno in buona fede, è arrivato alla conclusione che il suo è l’autentico Van Dyck indicato da inoppugnabili documenti, e che quello di Oxford è una tela – e neanche tanto bella (comparatele un po’!) – di mano di Rubens e di qualche suo aiuto.

Quella di Titomanlio è una narrazione fantasiosa, ma rigorosamente costruita sulla base di una relazione che il protagonista reale inviò al critico, qui chiamato Osvaldo Pianigiani, spirito geniale e indipendente, e che questi citò in un articolo che fu la prima vera grande vittoria di Morganti: “..anche un quadri conservato a Oxford, tradizionalmente letto da molti come Continenza di Scipione di van Dyck, rappresenta in realtà una scena della vita di Alessandro, come ha recentemente dimostrato Angelo Morganti” .

Lasciamo tutto il resto alla curiosità del lettore, anche se oggi, novembre del 2015, non sono state ancora decise urbi et orbi le attribuzioni, conseguenza del meccanismo narcisistico, autoreferenziale e  autoprotettivo degli ambienti accademici. Ma noi che ci siamo lasciati trasportare attraverso i diversi momenti della solitaria battaglia del collezionista, alla fine non abbiamo più dubbi e, osservando le immagini dell’inserto fotografico, siamo in grado  di riconoscere da soli la mano dei due artisti, le loro sensibilità diverse, le loro preferenze culturali e persino le loro scelte politico-sociali.

Sì perché questo libro ha alcune qualità che ne fanno un qualcosa di più di un thriller culturale, di una delle storie di quadri, di artisti, di onesti e di falsari che hanno proliferato negli ultimi anni e che sono astutamente richiamate dall’editore dal tocco di giallo della copertina.

La  caccia alle attribuzioni corrette ci accompagna attraverso la storia dei re Stuart alla corte dei quali sostarono i due fiamminghi, la nascita nel Seicento del collezionismo in Gran Bretagna grazie a Carlo I, al duca di Buckingham e al Conte di Arundell. Ci racconta la vita dei due Grandi artisti , ci porta nel mondo della critica d’arte fatta anche di opportunismo e mediocrità, analizza simbologie e tecniche pittoriche. Attraverso l’artificio retorico di inserire, in posizioni opportune per il  filo della narrazione, sette lezioni del professor Evan Waarheid, olandese di Delft e insegnante a Londra che espone ai suoi studenti gli argomenti scientifici  che lo hanno portato a condividere la tesi di Morganti.

In una ideale libreria metterei dunque “Non gli ho detto del quadro di Oxford” accanto ai libri di Matteo Marangoni, “Come si guarda un quadro”, come anche accanto alle monografie sulla storia dell’arte barocca. Sì certo, questa è fiction, ma non toglie nulla agli innamorati della storia dell’arte. Anzi, li aiuta.

 

 

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