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La moda dei maestri di danza nel Rinascimento

L’arte della danza permeò la società del Rinascimento e continuò ad avere un ruolo importante anche nei secoli successivi, quando l’uso di rendere più importanti le feste con canti e balli, e più tardi anche con veri e propri spettacoli, divenne un simbolo della magnificenza delle corti.
Ma cosa e, soprattutto, come si ballava nelle grandi corti quattrocentesche italiane?
Qualuncha virtuosamente la scienza et arte del danzare con lieto animo et colla mente sincera et ben disposta seguir vuole bisogna che prima, con fermo cuore et con speculante mente et considerazione, intenda, in generale, che cosa sia danzare”. Questo scriveva, nel 1460 circa, Guglielmo da Pesaro, detto anche l’Ebreo, nel suo Trattato del ballo, sottolineando la necessità che il ballerino accompagni ad una naturale predisposizione lo studio della tecnica.
Oggi è cosa per noi scontata: tutte le danze sono codificate e costituite da figure e passi che devono essere eseguiti in modi prestabiliti. Non lo era nel 1400, secolo in cui i repertori di danze migravano da una corte all’altra grazie ai “maestri di ballar”, veri e propri professionisti itineranti del ballo.
La_Danza2.jpgIl fenomeno dei maestri di danza esplose soprattutto nell’Italia settentrionale: non c’era principe che non organizzasse feste danzanti e non avesse il suo maestro di fiducia. Ma con la nascita della categoria professionale dei maestri si afferma anche la voga dei manuali in cui si stabilivano regole precise. Domenico da Piacenza o da Ferrara, Antonio Cornazano e Guglielmo da Pesaro, il più celebre, sono i nomi degli illustri organizzatori di feste per i grandi nobili, ma anche di musicisti e trattatisti che, per la prima volta, affrontano il ballo sia con dissertazioni teoriche che con indicazioni pratiche, cominciando così a creare una cesura tra il modo di ballare delle classi povere e i canoni seguiti da quelle abbienti.
Guglielmo da Pesaro, trattò il ballo come scienza, ma evidenziò anche i requisiti morali che deve possedere chi si accosta all’arte tersicorea e dettò le regole a cui gentiluomo e gentildonna devono sottostare. Alla fanciulla, scrive, non basta rispettare le regole del danzare, a lei sono richieste moderazione ed onestà, umiltà e mansuetudine, perché non si esponga al pubblico ludibrio: se ballando l’uomo può mostrarsi deciso ed aitante alla donna sono consentite esclusivamente soavità e leggiadria, le uniche caratteristiche che le garantiscono unanime approvazione.
Nelle famiglie nobili, è noto, i bambini studiavano musica, ma molti anche la danza, si ricorda a questo proposito Francesco Sforza che educò figli e figlie alla danza ancor prima che agli studi umanistici (questi ultimi solo per i maschi, è ovvio), perché l’arte coreutica era elemento indispensabile per vivere in maniera adeguata all’interno della società cortese.
Di Guglielmo si hanno poche notizie, nacque intorno al 1420, probabilmente a Pesaro, e per tutta la vita fu maestro di danza e ballerino presso le principali corti italiane. Intorno al 1463 si convertì al cristianesimo assumendo il nome di Giovanni Ambrosio, forse grazie all’influenza degli Sforza alla cui corte soggiornò a lungo, ma ebbe contatti anche con Lorenzo de’ Medici per il quale lavorava il fratello, Giuseppe Ebreo, maestro di musica e danza.
Dopo una vita intensa e segnata da grandi successi si fermò ad Urbino presso i Montefeltro, dove trasmise i segreti del mestiere al figlio: quel Pier Paolo divenuto celebre per essere stato citato da Baldassare Castiglione ne Il cortegiano come esempio negativo di ballerino professionista che danza "con tanta attenzione che di certo pare vada enumerando i passi".

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