
N’Djamena, 12 dicembre 2016
Carissimi/e,
Il tempo liturgico dell’Avvento che stiamo vivendo è un’occasione propizia non solo per prepararci alla festa del Natale, ma soprattutto per riscoprire una dimensione fondamentale della nostra fede, quella dell’attesa del ritorno del Signore Gesù. Davanti alle tante situazioni di sofferenza del nostro mondo, tuttavia, sembra sempre più difficile credere all’adempimento delle profezie che annunciano la venuta di un giorno in cui il lupo e l’agnello dimoreranno insieme, in cui il leone si ciberà di paglia come il bue (Is 11, 1-10). Spesso ci viene da chiederci, come Gedeone: “Se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo? Dove sono tutti i prodigi che i nostri padri ci hanno narrato…?” È bella la risposta che il Signore gli dà in questa circostanza: “Va con questa tua forza e salva Israele dalla mano di Madian” (Gdc 9,13).
Potrebbe sembrare che Dio non prenda seriamente in conto la difficoltà di Gedeone, ma in verità gli fa capire l’importanza di fidarsi di Lui e di credere alla sua parola più che alle sue convinzioni interiori, anche quelle che sembrano più evidenti. L’accensione progressiva delle quattro candele nel tempo di Avvento, ci ricorda l’importanza di condividere le luci di speranza che il Signore accende nel cuore di noi, soprattutto quando impariamo a disobbedire alle paure, correndo il rischio di mettere qualche volta la mano nella buca del serpente velonoso. “La fede è come un cammino dello sguardo in cui gli occhi si abituano a vedere in profondità”, ci ricorda papa Francesco e in questo pellegrinaggio interiore possiamo sostenerci reciprocamente, per attendere vigilanti il ritorno del Signore. In questo spirito, provo a condividere con voi alcune riflessioni ispirate dalla mia esperienza missionaria.
Un momento molto bello di gioia, che viviamo ogni anno per la festa di Pasqua, è la celebrazione dei battesimi. Ultimamente c’è stata una leggera dimunzione del numero dei catecumeni, ma ogni anno ci sono sempre circa trecento giovani e adulti che si iscrivono per la prima volta alla catechesi e che si preparano a ricevere i sacrementi durante quattro anni. La preparazione, alla fine, è molto intensa e il sabato santo pomeriggio è consacrato alla prova generale della celebrazione, insieme ai padrini e alle madrine. Una scena quest’anno mi ha molto colpito. Tra i candidati c’è una giovane mamma, la moglie di un nostro caro amico, il tecnico che ci ha aiutato a montare i pannelli solari. È venuta sola con la sua piccola bambina, perché il papà è occupato per il lavoro. La bambina, nonostante la confusione, sta dormendo profondamente. Quando viene il suo turno per avvicinarsi all’altare decide di lasciare la bambina a Antoine, il nostro seminarista en stage. Mentre i catechisti danno le istruzioni meticolose per i gesti e i movimenti da fare, osservo in silenzio la bambina che dorme sulle ginocchia di Antoine e mi viene in mente quell’immagine molto bella di papa Francesco a proposito della chiesa come ospedale da campo e anche quello che diceva san Giovanni Paolo II: “Tutti siamo davvero responsabili di tutti”.
Qui in Ciad si insiste molto sull’idea della chiesa come famiglia di Dio e la scena mi fa pensare alla bellezza di questa realtà, dove tutti i fedeli sono sollecitati ad aver cura gli uni degli altri in modo semplice e immediato, come in una famiglia, sapendo che il Signore suscita sempre le forze e le competenze necessarie per rispondere con amore ai bisogni del prossimo. Grazie alla presenza da noi lo scorso anno di Simone Lazzerini, della comunità del Mulino di Casole, i ponti di amicizia fra l’Italia e il Ciad diventano ancora più solidi e più belli. Durante le vacanze estive, ho avuto la gioia di passare due giorni con gli amici del Mulino. Un giorno, durante una passeggiata nei dintorni di Vicchio, mi sono avvicinato a una casa colonica ristrutturata, che doveva essere nel passato una vecchia canonica. Lì vicino, infatti, c’è un campanile senza campane. Mi è venuto da pensare al Ciad dove, al contrario, ci sono campane senza campanili. Sarebbe bello se riuscissimo a mettere insieme le forze per avere campane e campanili nello stesso luogo.
L’iniziativa delle borse di studio per gli studenti universitari, creata dalla comunità del Mulino, è davvero un segno si speranza che va in tal senso, soprattutto in questo grave momento di crisi economica per il Ciad. La drastica riduzione del prezzo del petrolio ha messo in ginocchio il paese. Gli impiegati statali non ricevono il salario da almeno quattro mesi. Ci sono scioperi dappertutto, quelli più penalizzanti riguardano i settori della sanità, della scuola e dell’università. In parrocchia ci stiamo attrezzando per organizzare dei corsi di recupero per i ragazzi delle scuole superiori, mentre per gli universitari la sola possibilità è quella di andare all’estero, in Camerun, in Burkina Faso o in qualche altro paese francofono.
La collaborazione fra le Chiese del Ciad e quella di Firenze progredisce anche per quanto riguarda la formazione dei preti, al punto tale che oggi con una battuta, possiamo dire che nei due Seminari maggiori si parla fiorentino. Ben tre sui dodici formatori, hanno fatto gli studi a Firenze. Il nuovo rettore, l’abbé Dominique, ha passato diversi anni a Rifredi e poi a Montagnana e Montegufoni, l’abbé Albert all’Immacolata a Montughi e l’abbé Samuel al Virgigniolo. Un nuovo prete ciadiano, l’abbé Carlo, è arrivato a Firenze e sta frequentando il primo anno di licenza alla Facoltà Teologica.
Nel ministero dell’accompagnamento dei malati della parrocchia, mi stupisce sempre la forza interiore con la quale le persone qui sanno reagire davanti alle sofferenze. Penso in particolare all’esempio di resilienza di madame Rosine, che è uscita viva da un terribile incidente stradale. Caduta dalla moto, un camion è passato sopra di lei. Le hanno amputato le due gambe e il braccio sinistro. Dopo una lunga degenza all’ospedale è rientrata a casa e, ogni volta che vado a trovarla per la confessione, ha sempre voglia di ridere e di scherzare. Prima di ripartire chiede alle sue figlie di prepararmi un po’ di pesce. Mangiandolo, mi viene da pensare a quel misterioso cibo che il Signore risorto prepara ai suoi discepoli sulla riva del lago di Galilea, mentre loro sono intenti a trarre le reti a terra (Gv 21,9-13). Se i discepoli non osano domandare a Gesù: “Chi sei?”, io non oso domandare a Rosine: “Come fai?”, credo comunque che mi risponderebbe semplicemente con un altro sorriso.
La conclusione del Giubileo della Misericordia è stata segnata da un evento di grande gioia: la nomina e l’installazione del nuovo Arcivescovo di N’Djamena, monsignor Edmond Djitanagar. La Messa, a cui hanno partecipato più di cinquemila persone, ha visto la presenza anche di numerosi Vescovi dell’Africa centrale. Fra questi c’era anche l’Arcivescovo di Bangui, nominato recentemente cardinale. Quest’ultimo, prima di ripartire, ha rilasciato un’intervista a un giornale locale, parlando della situazione in Centrafrica. Mi ha molto colpito il racconto di una sua visita nel quartiere PK5 che è la roccaforte dei jiahadisti di Bangui. Era partito insieme a una delegazione, formata da cattolici protestanti e musulmani per consegnare un messaggio di pace. A un certo punto, nel corteo, si è inserita anche una capretta e quando si sono fermati anche lei si è fermata e quando sono partiti, anche lei è ripartita insieme a loro. Il cardinale ha commentato: “Anche gli animali capiscono l’importanza della pace”. Nel messaggio consegnato si insisteva soprattutto sul comandamento “Non ucciderai”. I jihadisti, colpiti dal coraggio dell’Arcivescovo che era venuto a fargli visita, hanno deciso così di rilasciare un prigioniero che era già stato condannato a morte.
C’è un ecumenismo del sangue, un ecumenismo della sofferenza, che ci permette di progredire nell’unità visibile fra le chiese e che diventa una forza grande davanti alla minaccia dell’estremismo e della violenza. Ne ho avuto un’ulteriore prova alcuni mesi fa, dopo la morte del p. Jacques Hamel, ucciso in Francia alla fine della Messa, nella chiesa di Saint Etienne di Rouvray. Un amico delle chiesa protestante, il pastore Yake, è venuto a farmi visita e a esprimermi il suo dolore e il suo rammarico per questo tragico avvenimento. Il suo modo di parlare, talvolta, mi fa un po’ sorridere perché non smette di ripetere che questi eventi rivelano che la fine del mondo è vicina. Lo dice, non in modo minaccioso come i testimoni di Geova, ma con la luce della fede che permette di vedere l’invisibile e di restare saldi nelle prove. Queste sue parole allora mi incoraggiano molto e mi spingono a andare avanti a credere che il male, per quanto si presenti forte e invincibile, è in verità prigioniero di se stesso (Sap 17,15). Il bene invece, per quanto piccolo e insignificante agli occhi del mondo, porta sempre frutto. Benedetto XVI diceva che nel mondo i deserti esteriori avanzano perché aumentano i deserti interiori. Potremmo allora impegnarci a frenare questi deserti attraverso una cintura verde interiore, fatta di gesti di accoglienza e di rispetto della dignità di ogni persona. Il libro della Genesi ci ricorda che a un certo punto Abramo, nostro padre nella fede, smette di costruire altari e inizia a piantare alberi, perché capisce che la comunione col Signore è più di carattere conviviale che cultuale. Proprio all’ombra degli alberi, riceve l’annuncio definitivo della nascita del figlio della promessa.
Chiunque è dalla verità dell’amore, ascolta veramente la parola di Gesù, lo accoglie e riceve il potere di diventare figlio di Dio. La nuova nascita del Signore nella nostra storia ci conceda di rinascere in questa fede.
Buon Natale. Con amicizia e affetto, don Gherardo