
E per fare questo non c’è da fare altro che prendere in considerazione i suoi modi di essere e di agire, di parlare e di testimoniare.
Innanzitutto ripensiamo al suo motto episcopale “pro veritate adversa diligere”, (per la verità, scelgo, non evito le situazioni difficili). Impegnativo e decisamente controcorrente rispetto alla diffusa filosofia del quieto vivere, anche in ambito ecclesiale. Proposito perseguito con tenacia sia nei confronti della realtà politica e sociale, sia nei confronti della struttura clericale, quando i codici tendono a soffocare il respiro della Parola e dello Spirito.
Ebbe tratti che richiamavano chiaramente alcuni suoi illustri predecessori. Fu “defensor civitatis” come Ambrogio, quando sferzò la classe politica del centrosinistra allegramente avviata al disastro di Tangentopoli; quando spiegò che il sistema giudiziario non deve perseguire la vendetta ma il recupero del reo; quando si schierò a favore dei diritti dei più deboli, dei giovani e degli immigrati e delle donne, ai quali si stava “rubando il futuro”.
Ma fu anche pastore preoccupato del proprio gregge, come Carlo Borromeo, pur superando di slancio la visione tridentina del santo e lavorando alacremente a lenire le ferite delle divisioni fra cristiani, fondando – insieme con fratelli protestanti e ortodossi – un Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano che ancor oggi riunisce 17 confessioni. Fu uomo spirituale come Schuster e nel contempo sensibile alle istanze sociali come Montini.
Nella costruzione della “città dell’uomo” non disdegnava la compagnia di uomini e donne di buona volontà, pronti a mettere in gioco se stessi al di fuori e al di là degli steccati della storia, accettando le contraddizioni, laddove la convivenza fra diversi può generare conflitto e opportunità. “Maledetta città – benedetta città”, come ebbe a dire in un suo intervento pubblico.
Ci lascia il dialogo come metodo, all’interno della Chiesa e fra cristiani di diverse tradizioni, con credenti di altre fedi, in particolare gli ebrei e poi i musulmani; e con i laici. La pluriennale esperienza della “Cattedra dei non credenti” rimane un punto di riferimento per l città di Milano, con la sua semina abbondante di ritrovata credibilità per una Chiesa di nuovo capace di ascolto.
La persona al centro, ma concretamente non in maniera teorica e a volte distaccata dalle fatiche della quotidianità. I poveri, i carcerati, gli abbandonati, i sofferenti, le famiglie (nelle sue varie “forme”) in difficoltà: per ciascuno una parola di attenzione e non un precetto da imporre.
Fa discutere la sua scelta chiara contro l’accanimento terapeutico nei momenti ultimi della vita, ma questo “scandalo” – un po’ strumentale da parte di molti – dipende anche dalla poca chiarezza che le comunità cristiane hanno vissuto sul tema, grazie a una predicazione “dolorista”. Ora anche teologi esimi si sbracciano a dichiarare che “la Chiesa l’ha sempre sostenuto”, ma non è vero, è conquista recente, e comunque il sentire comune dei fedeli non era e ancora non è così chiaro.
Una Chiesa coerente con la Parola di Gesù Cristo, ha chiesto Martini nelle sua ultima intervista. Una Chiesa attendibile e misericordiosa, una Chiesa che eviti privilegi e ostentazione, perché intanto uomini e donne si allontanano dalla pratica. Una Chiesa del coraggio, della fiducia e della speranza; una Chiesa guidata non da “un uomo solo al comando” ma con una più ampia responsabilità; una Chiesa che sappia mettere una mano sulla spalla di chiunque sia in ricerca. Una Chiesa che lui è riuscito a immaginare e che – forse – riusciremo anche noi a vedere.
Giorgio Acquaviva