
San Miniato – La vera novità della Festa del Teatro di San Miniato 2015 è che non ci sono novità. Perché contravvenendo a una regola dell’Istituto del Dramma Popolare, che l’organizza e che vuole debba essere un testo inedito, finora mai rappresentato, a sugellare la manifestazione, si va stavolta sul dejà vu. Anche se poco e occasionalmente.
Ma c’è anche un altro motivo. Più strategico, come rivela il presidente della Fondazione sanminiatese, Marzio Gabbanini: “Questa scelta, che può sembrare in controtendenza con la storia del festival, è anche dovuta al fatto che volevamo andare sul sicuro, dal momento che il 9 novembre, lo spettacolo sarà a Firenze, nella basilica di San Lorenzo, nell’ambito del Convegno della Chiesa Italiana, dove è atteso il Santo Padre”. Collaudato e dal bell’impatto felicemente “datato”, qualcosa che l’avvicina alle gloriose mise en scène del Théatre du Soleil, è sicuramente questa Passione di Cristo, ora rinomata Passio Hominis, che sigla la sua prima uscita nel 1978 a Milano, protagonista Elsa Merlini (le succederanno Pupella Maggio e Piera degli Esposti), ora da Antonio Calenda, regista e ideatore, restituita a pienezza espressiva e dinamismo drammatico nel fondale della Piazza del Duomo.
La Festa di San Miniato, nata nel 1947, nel clima di ricostruzione e riconciliazione alitante nell’immediato dopoguerra, punta da sempre l’obiettivo sui valori di un teatro dello spirito, un teatro sì laico ma in grado di motivare “religiosamente” la riflessione e il ripensamento sul destino dell’uomo. La passione di Cristo per Calenda è anche la passione del nostro Paese, dilaniato da una sorta di conflittualità permanente, che quando nel ’78 la elaborò, rifacendosi a sacre rappresentazioni di origini medievali, alla metà del Cinquecento trascritte da Maria Jacoba Fioria (monaca teatina e appassionata amanuense), subì sul proprio l’irrimarginabile ferita del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro.
Così attorno al Cristo docilmente impetuoso di Jacopo Venturiero e alla Maria di Lina Sastri, magnifica per la frugale incisività del dolore materno quanto solenne per la fragilità imperativa del volere divino, si stringe una comunità, uomini e donne, artefici e complici, ciascuno a suo modo, del rito della Passione, gli apostoli, Giuda, Giovanni, Caifa, Pilato, i sacerdoti, Marta, Maddalena. Sono persone di oggi o appena ieri, un quarto stato uscito da memorie contadine e lotte operaie, resistenti e migranti, figure letterarie che sfilano sulle pendici del Calvario (una grande pedana rettangolare col pubblico dentro e fuori) come sulla passerella dell’avanspettacolo (vaga clownerie felliniana) o sulla balera di una festa di paese, fisarmonica e batteria, dove si canta (pregevole la voce di Noemi Smorra), si intrecciano passi di tango, ci si ferma a chiacchierare e ascoltare come seduti davanti alla porta di casa, mentre il gallo canta tre volte e Giuda si specchia nella dissolvenza dei suoi trenta denari. Un bianco sipario, una sindone, chiude l’orto di Getsemani, lo spazio della rappresentazione. Là in fondo, sul palco delle apparizioni, il Cristo morirà, fucilato alla schiena, legato a una sedia, come don Pietro (Aldo Fabrizi), il parroco dei partigiani di Roma città aperta. Si replica fino al 22 luglio.
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Gabriele rizza