
Firenze – Nell’anno delle celebrazioni napoleoniche per il bicentenario dalla morte del grande Còrso è interessante ricordare anche la figura di Gioacchino Murat, oggi dimenticata ma che fu molto importante per il nostro Risorgimento perché lasciò un’impronta profonda nei patrioti che sollevarono la questione dell’indipendenza e dell’unità d’Italia.
Personaggio irruento ma anche complesso, Murat combatteva per l’imperatore; ma in quanto re di Napoli trattava con la coalizione antibonapartista in modo da salvare il suo trono. Non era un banale “doppio gioco” né si trattava di sdoppiamento di personalità. C’era, invece, una sovrapposizione di ruoli, in parte provocata dallo stesso sistema imperiale .
Salito sul trono di Napoli per volere di Napoleone, Gioacchino Murat si reputò un alleato, non un suddito dell’imperatore. E se Bonaparte considerava Napoli una “sua” conquista , da assegnare al marito di sua sorella, quest’ultimo ritenne di aver ricevuto una ricompensa, nemmeno troppo generosa, per le sue imprese militari..
Quando giunse a Napoli, re Gioacchino era già una figura leggendaria. Nella Campagna d’Italia aveva guidato le cariche della cavalleria e nelle successive imprese militari ne aveva fatto un’arma poderosa e anche spettacolare.
Fece il solenne ingresso a Napoli il 6 settembre 1809 con un coup de theatre che suscitò l’entusiasmo popolare. Entrò in città da solo, a cavallo e in mezzo a due ali di folla si recò a rendere omaggio a San Gennaro. Un gesto che gli valse il primo rimprovero di Napoleone: “Ho saputo che avete fatto delle smorfie a San Gennaro – scrisse – simili atti pregiudicano il prestigio reale”.
Osservando che governare uno Stato richiedeva ben altro carattere che guidare una carica di cavalleria, Bonaparte incalzava il cognato con rimproveri sempre più pungenti.
Quando Gioacchino restituì i beni agli esiliati filoborbonici, lo accusò di aver “perduto la testa”. E quando Murat, per farsi benvolere, gli inviò una copia del nuove codice napoletano ricalcato su quello francese, l’imperatore rispose che avere omesso l’istituto del divorzio distruggeva le fondamenta della sua codificazione.
Qualche tempo dopo la Francia gli impose di ribassare i dazi per le sue merci, proprio mentre da Napoli si chiedeva invano il ritiro delle truppe imperiali acquartierate nel regno.
Murat disse che non era re solo per obbedire e per accelerare il processo d’indipendenza da Parigi, riprese gli scambi economici con gli inglesi. Poi cominciò a parlare di un‘Italia indipendente. Per tutta risposta, nell’aprile 1811 Napoleone lo accusò pubblicamente di aver violato il blocco continentale e disse che il re di Napoli s’ingannava se credeva “ di regnare altrimenti che per mia volontà e per il bene generale dell’Impero. Se non cambia, m’impadronirò del regno e lo farò governare da un viceré”.
Murat corse a Parigi e al cospetto di Napoleone apparve soggiogato. Ma a Napoli tornò a deplorare l’ingerenza francese. Con la solita impulsività, emanò un decreto che imponeva agli stranieri che ricoprivano cariche pubbliche di prendere la cittadinanza napoletana. Napoleone, allora, fece affiggere sui muri di Napoli questa ordinanza: “Considerato che Napoli fa parte del grande impero, considerato che il principe che lo governa è francese, l’Imperatore decreta che tutti i cittadini francesi siano cittadini del Regno delle Due Sicilie.” Poi osservò, in privato, che come tutte le persone senza carattere era in potere degli adulatori e dell’ambizione di sua moglie che lo induceva a fantasticare una sovranità sull’intera Italia.
Nonostante questa l’umiliazione Murat accettò di prendere parte alla Campagna di Russia. A capo della Cavalleria della Grande Armata (oltre 40.000 uomini) trascinò gli squadroni in cariche leggendarie. Indeciso in politica, in battaglia era un condottiero dalle mosse fulminee. Indossava uniformi sgargianti che lo rendono riconoscibile alle truppe e al nemico. Fu il primo ad entrare a Mosca, il 14 settembre 1812 ma non avrebbe più dimenticato il sinistro silenzio che regnava nella città deserta.
Protesse poi la ritirata, in mezzo alle tempeste di neve. Quando Napoleone rientrò in Francia lasciò a lui il comando delle truppe. Murat, però, si riteneva inadatto all’incarico e, accusando una malattia, tornò a Napoli. Intanto inviò a Vienna un emissario per preparare un rovesciamento di fronte
L’Imperatore lo accusò di aver abbandonato l’Armata e aggiunse: “Mi auguro che non siate di quelli che pensano che il leone sia morto, sbagliereste, il titolo di re vi ha dato alla testa, se volete conservarlo dovete comportarvi bene”. Carolina allora scrisse al fratello ad essere paziente con Gioacchino che aveva l’idea fissa dell’indipendenza d’Italia. Murat tornò di nuovo a guidare la Cavalleria imperiale e a Luzen ebbe un encomio solenne ma continuava le trattative con le potenze nemiche. Sull’Elba, travolse l’ala sinistra dello schieramento avversario, tanto che lo zar Alessando I commentò: “Il nostro alleato nasconde fin troppo bene il suo gioco”. Ma era solo un doppio gioco o addirittura una sorta di sdoppiamento di personalità quello per cui l’infido alleato, sul campo di battaglia, tornava ad essere l’indomito cavaliere di Napoleone?
L’Imperatore, però, alla vigilia della battaglia di Lipsia gli disse freddamente: “Ho avuto torto a farvi re… vi preoccupate solo della vostra corona e vi preparate ad abbandonarmi”. Murat allora ai suoi collaboratori, confidò: ” Vuole che gli resti fedele. Mi dia tutta l’Italia. Sarebbe un duro colpo per l’Austria. Con la leva in massa, saremmo una forza irresistibile”. All’Austria e alla Gran Bretagna dava, ovviamente una versione completamente diversa, dichiarandosi pronto a marciare contro i francesi del vicerè Eugenio. E arrivò a stipulare un trattato di alleanza con Vienna. Quando sul Taro affrontò in alcune scaramucce i reparti francesi, il Vicerè Eugenio esclamò che i soldati napoletani erano entrati come alleati ed erano invece nemici.
Tuttavia, i nuovi alleati mantennero un atteggiamento ambiguo che preoccupava il re di Napoli. Lord Bentinck comandante delle truppe britanniche in Italia sosteneva che Ferdinando di Borbone non aveva mai rinunciato al trono di Napoli. Così quando truppe inglesi sbarcarono a Livorno, Murat cambiò nuovamente fronte e propose senza successo Eugenio un’intesa per ricacciare l’invasore. Invano la stessa Carolina, a Bologna lo esortava ad affidarsi all’ Austria perché il doppio gioco lo avrebbe rovinato. Ma la posizione di Murat non era meramente utilitaristica. E’ vero che in adempimento del trattato attaccò le truppe francesi del vicerè Eugenio ma quando il 30 marzo Napoleone abdicò, Murat apprese la notizia con costernazione. Dichiarò di non aver mai pensato che gli alleati avrebbero costretto Napoleone a lasciare il trono; se lo avesse sospettato sarebbe corso in suo aiuto senza alcuna altra considerazione, anche a costo della vita.
Nel clima di restaurazione del Congresso di Vienna, Luigi XVIII spronava l’Austria a spodestare l’usurpatore. Murat continuò allora a giocare su più tavoli e tenne contatti con Napoleone all’isola d’Elba., avendo capito che le potenze vincitrici non avrebbero mantenuto i patti. Quando ebbe sentore della fuga dall’Elba offrì un sostegno navale che l’Imperatore rifiutò. Intanto, i patrioti napoletani lo esortavano scendere in campo, per liberare la penisola dagli austriaci. Ma il re di Napoli era esitante perché sapeva che l’impresa di Napoleone era disperata, aiutarlo significava perdere il regno. Alla fine, però, prevalse in lui lo slancio generoso. Alla testa di un esercito di 35.000 uomini attaccò le truppe austriache nonostante il consiglio contrario dello stesso Napoleone al quale scrisse ” Ora potrò riparare i miei torti e mostrarvi la mia devozione”.
Battuti gli austriaci a Cesena, Murat lanciò da Rimini un Proclama ” a tutti gli italiani” : promettendo l’indipendenza, l’unità nazionale e una Costituzione liberale. Alcuni criticarono, però, che il Proclama fosse stato controfirmato dal generale francese Villeneuve.
Murat capì che Il Proclama non avrebbe provocato una sollevazione generale, (“ho avuto solo poesie”, disse) mentre l’Austria stava inviando un poderoso corpo si spedizione. Battuto da Neipperg e offeso nel vedere respinta la richiesta di armistizio, cercò ad ogni costo la battaglia conclusiva. I due eserciti, si fronteggiarono a Tolentino, presso Macerata. Murat stava vincendo ma la notizia che contingenti austriaci marciavano su Napoli lo costrinse alla ritirata che divenne un rovinoso sbandamento. A Napoli, si sentì cantare “fra Macerata e Tolentino è finito re Gioacchino”.
Per non cadere in mano agli inglesi il 19 maggio Murat ,vestito in borghese, tornò in Francia, ma Napoleone, alla vigilia di Waterloo, si rifiutò di riammetterlo nell’esercito. Anni dopo, a S. Elena, avrebbe ammesso: “Forse Murat ci avrebbe valso la vittoria…sarebbe bastato sfondare due o tre quadrati inglesi e Murat era ammirevole per tale bisogna…alla testa della sua cavalleria non si vide mai nessuno più coraggioso e brillante”.
Dopo Waterloo Metternich gli offrì ospitalità in Austria. Ma a un destino da esule Murat preferì l’avventura: radunò dei volontari e tentò uno sbarco ma quando quattro battelli del suo corpo di spedizione smarrirono la rotta , capì che l’impresa era fallita e ordinò di far rotta su Trieste. Sbarcò a Pizzo Calabro per fare rifornimento. In realtà, era riluttante ma poiché i rifornimenti apparivano impellenti confidò nel fatto che aveva un salvacondotto austriaco. Che non gli valse niente. Catturato e sottoposto ad un processo – farsa , morì con la dignità del sovrano, che non riconosceva autorità ai propri giudici e con il coraggio che lo aveva reso leggendario come il cavaliere di Napoleone.
Foto: Murat alla battaglia di Abukir, di Antoine-Jean Gros, 1807