Governo: coraggio innovatore contro la sindrome del ’19

Siena – Sto con Eugenio Montale: « La storia non è magistra / di niente che ci riguardi. / Accorgersene non serve / a farla più vera e più giusta». Tuttavia ritengo non sia assurdo evocare per la convulsa stagione che stiamo vivendo una sorta di “sindrome 1919” e riflettere sulla fase che Pietro Nenni racchiuse, appunto, nel termine “diciannovismo”.

Un termine che non copriva solo quanto avvenne in quell’anno fatale di parole rivoluzionare gridate a vuoto e di sordida, incipiente “rivoluzione passiva” di ceti dirigenti allo sbando. Non ha torto Emilio Gentile nel sottolineare che il fascismo diciannovista aveva in effetti la fisionomia di un movimento libertario e confuso aperto agli esiti più disparati. Ma da allora, da quella cesura, scaturì un’ondata di demagogiche intolleranze che sovrastò ogni possibilità di dialogo tra i  partiti di massa, il Partito popolare sturziano e il dilaniato Partito socialista.

Insieme avrebbero avuto alla Camera una risicata maggioranza (256 seggi su 508) suscettibile forse di ulteriori apporti. Per la prima volta nel novembre  si votò con un sistema proporzionale. I notabili liberali si dispersero in decine di raggruppamenti. La sinistra nelle sue rissose componenti rimase maggioritariamente preda di un massimalismo bolscevizzante che ebbe solo il risultato di seminare il panico. Le rivendicazioni  nazionali furono ignorate del tutto o irrise senza freni.

Inutile ripercorrere vicende che non si prestano a facili semplificazioni ordite col senno del poi. Schematizzare una comparazione tra il populismo odierno e le distruttive tendenze di allora porta a immaginare un quadro improbabile. Eppure circolano oggi nella lotta politica linguaggi e imperativi che inducono a ripensare le cause –  similitudini e specificità – di quel disastro e a metterlo in relazione con il clima dei nostri giorni.

La categoria di populismo appioppata indiscriminatamente a qualsiasi soggetto semini sfiducia verso le élites dominanti ha accomunato e accomuna fenomeni e stati d’animo non sempre affini e tanto meno omogenei. Molti studiosi sostengono che populismo più che un’ideologia compiuta è un mutevole atteggiamento destinato a concretizzatosi via via in forme peculiari.

Marcatamente populista e ondivago fu all’origine il movimento dei Fasci, ma sarebbe errato cavarsela proiettando sull’attualità le ombre di allora ed etichettando come fascisti tout court quanti manifestano, non solo in Italia, contro lo strapotere dei centri finanziari e criticano una politica non più in grado di assolvere i suoi compiti. Il M5s non è da collocare sullo stesso piano della Lega, nella quale è semmai più calzante ravvisare un demagogico nazionalpopulismo o sovranismo che dir si voglia.

La lotta contro il “populismo di destra” – la precisazione è d’obbligo – consiglia di escludere qualsiasi nostalgico ripristino di meccanismi frontisti vecchio stampo, illusori e antiquati. L’area di centrosinistra è in una maledetta e impacciata stasi. Lo stesso Pd, che ne dovrebbe essere componente non marginale, è frantumato in correnti e gruppuscoli che lo condannano all’impotenza.

Far affidamento sui cosiddetti sindaci civici per imboccare la via della ripresa non è una scelta risolutiva. La personalizzazione e i localismi di cui sono sovente portatori – e la Toscana ne sa qualcosa – non aiutano a rendere coerente e efficace una strategia che poggi su idee condivise.

Per tentare di sconfiggere i populismi di vario tipo che hanno già condotto l’Italia in un vicolo cieco occorre dar vita ad un autentico e organico moto costituente che fonda culture, sensibilità, generazioni. È normale che ci si rivolga anche a chi tra i pentastellati ha creduto in un drastico rinnovamento.

È essenziale che si tenti di far breccia nel blocco posticcio a trazione leghista. Ma per rimontare la china è necessario un lavoro serio, fondato su analisi non improvvisate e in grado di proporre obiettivi mobilitanti che parlino al cuore (e alla pancia) dei quanti sono delusi o stremati da una crisi non effimera, non di superficie.

La politica non deve esser ridotta ad un game, né si esce dalla stretta con l’azzardo di brillanti giocatori di  poker. Tentare di metter su un governo con un programma orientato sul sociale, preciso e fattibile è un argine, una mossa utile. Non basterà a fermare l’ondata becera e dirompente della Lega e accoliti se non si avvia un lavoro serio e non si costruisce una forza che miri lontano.

Rispetto al fascismo i populisti di destra odierni si distinguono perché non negano la democrazia, ma la vogliono usare – drogare – per renderla strumento di un potere illiberale legittimato dal consenso. Si è coniata non a sproposito la nozione di “populismo digitale”.

È inimmaginabile ipotizzare un caotico rassemblement antipopulista. All’ordine del giorno c’è la ridefinizione – non certo soltanto in Italia –  di assetti democratici indeboliti e marginalizzati da una globalizzazione finanziaria che ignora confini e spiazza visioni non più realistiche.

È indispensabile che l’auspicata alleanza si formi su contenuti per un riformismo forte e praticabile: che animi o un governo di compromesso o si faccia piattaforma di un’opposizione moderna. È più utile capire quali siano le ragioni del successo dei movimenti in auge che demonizzarli in nome di sacri valori venerati con retorico ossequio.

«Il pericolo reale non sono i fascisti, veri o presunti, ma i democratici senza ideale democratico»  ha sintetizzato lapidariamente Gentile. È urgente dare più spazio al coraggio innovatore, diffondere nuove modalità di condivisone rese possibili da tecnologie e reti non territoriali. La macchina partito novecentesca non è più una risposta efficace nell’età del “tramonto della politica”.

Si prenda ad esempio l’europeismo, che è stato perlopiù assunto dalla sinistra con acritica euforia. Decisive sfide sovranazionali quali il governo delle migrazioni, l’approvvigionamento energetico, la salvaguardia ambientale non hanno avuto il peso che avrebbero dovuto avere. Il funzionalismo è  diventato sempre più monetario da economico e mercatistico che era in partenza.

Il modello europeo di stato sociale è stato messo in discussione e non rivisto alla luce di nuovi condizionamenti. Per controbattere alle accuse, non uniformi, che contro questa Unione europea vengono rivolte bisognava – bisogna – agire coi fatti, parlar chiaro con parole d’ordine comprensibili, non continuare a subire complessi di inferiorità, non fare gli amici (insoddisfatti) del giaguaro. Non mancano elaborazioni alte e programmi di respiro ignorati dalla battute da twitter e dalle cieche offese.

«La cultura politica – ha scritto Salvatore Veca – erede del socialismo liberale e democratico rischia di andare al macero, se non si misura con i difficili problemi della questione sociale globale che chiede criteri di equità globale, coi difficili problemi di istituzioni internazionali e transnazionali, coi difficili problemi della produzione di norme che regolino i nostri modi di condividere lo stesso mondo».

Ma quando mai ci si è adoperati per partiti o collegamenti attivamente europei? «Nel Paese che ha dato i natali al fascismo – ammonisce Federico Finchelstein – il populismo non respinge il proprio predecessore, e punta anzi a dar vita a schieramenti politici che includono scopi e idee sostenuti dai fascisti»: gli spettri del 1919 e del 1933 non consentono indifferenza. «Nella Germania degli anni trenta – ha notato Siegmund Ginzberg – andare a votare e rivotare era un sintomo dell’incapacità di dare risposte politiche alla crisi».

Anche la Sindrome 1933 non dà requie. Non si rilegge senza provare turbamento un passo dei Quaderni gramsciani ripescato da Raoul Mordenti (in Gramsci e il populismo, a cura di Guido Liguori): «Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti ‘spontanei’, cioè rinunciare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica, può avere conseguenze serie e gravi. Avviene quasi sempre che a un movimento ‘spontaneo’ delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti: una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte, e dall’altra complotti di gruppi reazionari che approfittano dell’indebolimento obbiettivo del governo per tentare colpi di Stato.

Tra le cause efficienti di questi colpi di Stato è da porre la rinuncia dei gruppi responsabili a dare una direzione consapevole ai miti spontanei e a farli diventare quindi un fattore politico positivo». Niente parallelismi, ma qualche spunto è lecito prenderlo, adattandolo certo ad una situazione ben diversa.

Foto: Pietro Nenni

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