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La caduta del Muro: un novembre con i colori della primavera Opinion leader

Firenze –  In ogni caso non ci si può perdere, alla fine si arriva sempre al Muro”..(Il  cielo sopra  Berlino)

Novembre 1989: un autunno che assunse i colori della primavera. Certo, a più di trent’anni di distanza rimangono ancora muri, alcuni per contenere i flussi migratori e altri invisibili come le barriere dell’odio, dell’ingiustizia, dell’indifferenza  ma  l’abbattimento di quello che era stato definito il muro della vergogna mostra che il desiderio di libertà  può essere una forza dirompente.

La sera del  9 novembre 1989 bastò l’annuncio che  sarebbero stati aperti i posti di blocco fra le due parti della città (ma il governo non aveva precisato tempi e modalità come la eventuale concessione di un visto ecc) per generare un moto spontaneo di popolo che portò a uno degli eventi memorabili della Storia, la caduta del  Berliner Mauer , per trent’anni,  simbolo della Cortina di ferro.

Non a caso,  la ricorrenza dell’abbattimento fu festeggiata con un mega concerto di  Roger Waters (ex batterista dei Pink Floyd) che eseguì dal vivo la  mitica The Wall . Il Muro, appunto, senza aggettivi.

Quella fu davvero  una notte magica uno di quei momenti in cui come nelle commedie di Shakespeare, tutto può succedere perché   le leggi di natura sembrano sovvertite.

Infatti, per chi ha  conosciuto gli anni bui della guerra fredda, la politica dei blocchi era una sorta di legge  di natura  e la dissoluzione dell’impero sovietico  fu  un evento inatteso, quasi prodigioso.

In realtà, la politica di Gorbaciov aveva innescato profondi mutamenti  Non erano più  ipotizzabili interventi armati come era avvenuto a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968; ma non ci si  aspettava  un evento così  dirompente.  Appena pochi mesi prima, giornalisti e politologi, parlando dei mutamenti della Perestrojka, discutevano sulle possibilità di autoriforma della DDR ma veniva presa in considerazione la riunificazione della Germania  in tempi brevi.

Infatti, negli anni ’70 e ’80 il muro di Berlino appariva una fatto ormai scontato. Da  tempo, la  divisione tra le due Germanie era stata sancita anche sul piano del diritto. Le zone di occupazione si erano trasformate in due Stati che avevano ottenuto riconoscimenti  internazionali e nel 1973 erano state ammessi all’ONU.  Per di più, la Germania  Est  appariva una potenza  industriale robusta.

Per di più, la divisione era spesso considerata in Occidente un (anacronistico) antidoto contro il revanchismo tedesco e la ricerca di un dialogo tra  Est ed Ovest rendeva sospetta ogni modifica allo status quo. Anche le violazioni dei diritti umani apparivano a molti un prezzo da pagare per non esasperare la conflittualità. Tanto più che per  molti anni  l’Occidente  si  era appoggiato a  regimi  totalitari per ostacolare la penetrazione del comunismo  in varie  parti del mondo .

Tra i molti che scavalcarono il muro mentre le guardie di frontiere chiedevano inutilmente istruzioni sul da farsi, i giovani ebbero un ruolo di protagonisti. Ci attendevamo  un’epoca nuova di libertà e di cooperazione su basi paritarie.  Invece, al  bipolarismo  Usa-Urss  si è sostituita la leadership di un’unica superpotenza che può dettar legge anche perché l’Europa non riesce a procedere verso l’unità politica e ad affrancarsi da un ruolo subalterno.

Ma la fine dell’Unione sovietica fu, comunque, una rottura epocale, un cambio d’epoca  perché riportava tutta l’Europa dell’ Est, la Russia e le repubbliche asiatiche dell’Urss in una dimensione nuova. Anche perché da decenni si era consolidata  una visione dei  Paesi comunisti come un pianeta alieno con le sue regole, differenti da quelle dell’ Occidente: una diversità non solo come sistema politico ma  in campo economico, dalla  Borsa, al commercio estero alle questioni monetarie; e le differenze erano rimarchevoli  nei campi della cultura e  del costume.

E si riteneva che l’URSS non avrebbe consentito il disgregarsi degli Stati cuscinetto che portavano la sua sfera d’influenza nel cuore dell’Europa.  E poi  funzionava  la logica della compensazione: da un lato  l’Ungheria  e la repressione della Primavera di Praga, dall’altro il Vietnam , l’Argentina dei desparecidos,  l’apartheid del Sud Africa.

E poi, dalla fine dell’Impero austro-ungarico e di quello degli zar, i regimi assoluti  erano caduti solo a seguito di un evento traumatico come una guerra.  Eppure, a  Berlino   la fine avvenne con un evento pacifico. Una marea di folla attraversò quel  Muro che aveva visto  scorrere il sangue  e che fu demolito in un clima di festa.

Tutti conoscevano le difficoltà economiche dell’URSS e si riteneva che ciò avrebbe portato ad un ulteriore inasprimento della dittatura, forse avrebbe spinto a ripetere in Russia gli orrori di Piazza Tienammen. Per salvare il regime, anche a costo di scatenare una terza guerra mondiale.  Uno scenario non inverosimile perché varie volte le due superpotenze erano andate vicine alla guerra atomica. Ma la grande statura di Gorbaciov è aver guidato la riforma dell’URSS  anche quando non poteva ignorare che  ne sarebbe scaturita  una reazione a catena che avrebbe finito per spodestarlo.

Uno dei testi più incisivi per raccontare la Cortina di ferro è  la graphic novel Il Muro, del boemo Peter Sis, un libro di disegni  e di  ricordi.

Da ragazzo l’autore  faceva parte, come tutti, dei giovani pionieri e montava la guardia alla statua di Stalin ma aveva cominciato a leggere i libri proibiti, ad ascoltare le radio oscurate. Amava i Beatles e quando a Praga arrivarono i  Beach Boys si trovò in mezzo a migliaia di giovani entusiasti. Poi, però, l’esercito schierato trasformò il sogno in un incubo.  I telefoni e la posta erano controllati, la gente era sorvegliata.

“Ora, quando la mia famiglia americana va a trovare la  mia famiglia ceca nella vivace città di Praga – ha scritto Peter Sis – è difficile convincerla che sia mai stata un luogo oscuro, pieno di paura, sospetto e menzogne.”

Ho provato la stessa sensazione nella Berlino degli anni ’90  nell gioiosa Postdamer Platz( che nel film di Wim Wenders Il cielo sopra a Berlino  era  ridotta a uno spiazzo di terra battuta, una specie di terra di nessuno) e nell’ Unter den Linden  che mi ricorda un po’ gli Champs Elisées, ma  visitando le prigioni della Stasi nella ex Berlino Est ho ritrovato un’atmosfera cupa, opprimente: le celle e le sale degli interrogatori perfettamente conservate sembravano riportare nel passato.

L’inquietudine è  scomparsa quando ho visto la porta di Brandeburgo -non più sfregiata da  blocchi di cemento – che  s’innalza  oggi  tra le due parti della città come simbolo di unione (come è l’archetipo della porta): un pensiero commosso e un ringraziamento  sono andati a Imre Nagy , a Jan Palach, a Salvador Allende, a Oscar Arnulfo Romero,  a tutti quanti hanno visto i loro sogni  morire all’alba.

 

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