Morire di lavoro, 7 domande e una soluzione: cambiare il sistema

Firenze – La questione delle morti bianche, la strage silenziosa che si sta compiendo nei posti di lavoro, è diventata una delle grandi tematiche che coinvolgono non solo i sindacati e la politica, ma milioni di persone sempre meno tutelate e sempre più esposte al rischio che andarsene al lavoro diventi un viaggio senza ritorno. Un situazione che è stata posta drammaticamente all’ordine del giorno dalla morte della giovanissima Luana D’Orazio, 22 anni, (foto) risucchiata dall’orditoio, un macchinario della azienda tessile in cui lavorava, che ha scosso l’opinione pubblica nazionale e su cui si sta svolgendo un’inchiesta. La morte della giovane operaia con il sogno del cinema non è che la punta dell’iceberg di una realtà denunciata da anni, da sindacati, osservatori, organizzazioni, associazioni, la cui crescita in fatto di vittime non si è fermata neppure in costanza di pandemia. Sulla questione, che domani 7 maggio vedrà uno sciopero generale unitario dei sindacati, abbiamo chiesto un intervento a due rappresentanti sindacali, Gessica Beneforti della Cgil e Stefano Cecchi dell’Usb, organizzazione quest’ultima che ha chiesto l’introduzione del reato di omicidio di lavoro, proprio per inasprire i controlli e mettere sul tavolo le responsabilità per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro. Una sicurezza che, ma è banale osservarlo, ha calato sempre di più d’efficacia con il diffondersi dei lavori smart, veloci e con poche regole, che sono stati il leit motiv di questi ultimi (almeno) 10 anni. E che, nonostante i passi in avanti (ricordiamo la regolamentazione del lavoro dei riders) continuano ancora a essere un serbatoio di insicurezza per il mondo del lavoro. Dunque, 7 domande, uguali per tutti e due i rappresentanti sindacali, che Stamp ha posto a Cecchi e Beneforti, per tentare di ricomporre un quadro che, a fronte dei dati (anche ieri un operaio di 49 anni e padre di due bimbe in età scolare è morto schiacciato da un tornio a Busto Arsizio) in continuo aggiornamento, non si può non dire inquietante. 

Come mai le morti sul lavoro crescono anche in tempo di covid?

Beneforti : “Dobbiamo ricordare che anche nei momenti più duri della pandemia il lavoro non è mai diventato nella sua totalità lavoro agile, da remoto. Ciò è tanto più vero per i comparti a maggior rischio come l’industria e l’edilizia. Nemmeno durante il primo lock down di un anno fa tutto il lavoro si è fermato, numerose industrie hanno continuato ad operare, anche ricorrendo a escamotage e cavilli per aggirare le normative – se non a veri e propri illeciti – e quindi le probabilità che continuassero a verificarsi infortuni o incidenti fatali è rimasta alta, anzi, in percentuale alla quantità di ore lavorate, si sono accentuate”. 

Cecchi: “Le morti sul lavoro hanno un andamento di costante crescita negli ultimi anni, anche nell’ultimo anno, quello interessato dalla pandemia, i dati sono in costante crescita e su questo hanno inciso anche le morti da covid contratto sui luoghi di lavoro. Il motivo è sotto gli occhi di tutti: anche durante il cosiddetto  lockdown , le aziende e le attività hanno continuato a funzionare, tant’è vero che nel 2020, a fronte di un calo degli infortuni denunciati (effetto parziali chiusure) pari a – 13,6% si è avuta invece una crescita delle morti del 16,6%. Si tratta comunque sempre di cifre enormi, oltre 550.000 infortuni e 1270 morti. E ci si riferisce solo alle cifre ufficiali, dalle quali esulano tante denunce non fatte”.

La sensazione è che gli infortuni, anche mortali, siano diventati conseguenza inevitabile del lavoro. 

Beneforti: “Morire sul lavoro non è mai inevitabile. Se questo continua ad avvenire è per precise ragioni e responsabilità. Dall’obsolescenza tecnologica dei macchinari spesso in uso nelle aziende, che nonostante tutta la retorica sull’industria 4.0 continuano spesso ad essere gli stessi di molti decenni fa ponendo un’urgenza di investimenti per rinnovarli, al mancato rispetto delle normative sulla sicurezza. Molte, troppe volte, sentiamo dai lavoratori e dalle lavoratrici storie di macchinari a cui sono stati asportati i dispositivi di sicurezza da parte delle aziende perché rallentano il lavoro o perché costano in termini di manutenzione. C’è anche un problema culturale: la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro continuano a non essere la prima preoccupazione delle aziende, ma anche di chi i macchinari li progetta, li produce e poi li vende. Assicurare salute e sicurezza, in un modello di sviluppo low-cost che caratterizza ancora pesantemente larga parte del nostro Paese, non è considerato un investimento ma un costo, possibilmente da abbattere”. 

Cecchi:La crescita degli incidenti e delle morti sul lavoro è legata in gran parte alla precarizzazione del mercato del lavoro derivante dalle leggi che lo regolano e anche dall’innalzamento dell’età pensionabile. Un precario, un contrattista a termine in attesa di rinnovo, un lavoratore in appalto, avrà sempre paura a denunciare situazioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro e delle macchine in uso, perché spera nel rinnovo contrattuale”.

Quanto influenza ha sul profitto il non rispetto delle regole? 

Beneforti: “Nel breve termine può influenzare moltissimo. Questa affermazione si lega al discorso precedente. Per produrre di più e aumentare i profitti si “spremono” i lavoratori, oggi come nell’Ottocento, oltre i limiti, causando stanchezza, stress, disattenzione che si traducono, questi sì in maniera inevitabile, in incidenti gravi o mortali. I macchinari meno sicuri costano anche meno, a parità di capacità produttiva, e quindi sono più convenienti, così come è conveniente privarli dei dispositivi di protezione che rallentano la capacità produttiva. Infine, per aumentare i margini di profitto si cerca sempre di risparmiare sui dispositivi di protezione individuale, siano questi le scarpe antinfortunistica, i guanti, gli schermi facciali, le mascherine, i pannelli di protezione o altro ancora. E’ un problema di modello economico. Si continua a ricercare il profitto contraendo in primo luogo i costi del lavoro e per la sicurezza, senza investire sulle tecnologie e su un lavoro buono e di qualità. Nel lungo periodo i costi diventano altissimi, sia in termini umani, per la perdita colpevole di vite, salute, benessere, sia in termini di costi per la collettività”.

Cecchi: Il profitto in tutto questo ha un aspetto fondamentale, per la parte datoriale mettere in sicurezza un ambiente di lavoro ha un costo, e così molti, non tutti, preferiscono non accollarsi questi oneri, e poi per molti la cultura prevalente è che un lavoratore vale meno delle merci che manipola. Eppure esiste una legge la 81/2008 che dovrebbe imporre la messa in sicurezza di tutte le strutture lavorative”.

Secondo i vostri dati, quante aziende coinvolge l’insicurezza sul lavoro? 

Beneforti: “I dati ufficiali, sui quali peraltro scontiamo sia le difficoltà di collaborazione tra i diversi enti nel condividere i dati, sia gli obiettivi di vigilanza veramente troppo bassi, ci parlano di irregolarità diffusa.  La percezione data dal nostro diffuso insediamento della rappresentanza conferma ed aggrava, per le tante ragioni evidenziate, quei dati. Per fare un esempio: il tasso di irregolarità (a varo titolo) riscontrato dall’Ispettorato nazionale del lavoro nelle 10mila aziende ispezionate l’anno scorso, per verificare il rispetto delle norme sulla sicurezza, è del 79,3%”.

Cecchi: “Il problema degli incidenti/infortuni e delle morti sul lavoro riguarda un po’ tutti i settori lavorativi, poi ci sono quelli dove è più ricorrente quali l’edilizia, c’è un gran numero di incidenti per cadute dall’alto, ma poi anche tutti gli altri settori in particolare gli appalti con i relativi sub appalti, ma anche il settore pubblico in primo luogo i Vigili del Fuoco ( ci sono stati diversi caduti sul lavoro anche recentemente), a questi si è aggiunto nell’ultimo anno causa covid anche il settore sanitario con numerosi decessi”.

 Chi dovrebbe controllare? Le RLS? E perché non lo fanno? 

Beneforti: “Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza non ha compiti di controllo o ispettivi. Rappresenta i lavoratori esercitando le prerogative attribuitegli dal TU sulla sicurezza, spesso dovendo lottare anche solo per vederle riconosciute, e che attengono prevalentemente a momenti di informazione, confronto, proposta. I controlli spettano in primo luogo alle ASL e agli Ispettorati del lavoro, strutture spesso sottodimensionate per risorse e poteri sufficienti per esercitare pienamente le loro funzioni, senza contare le resistenze che incontrano da parte delle aziende e delle loro strutture di rappresentanza. Come non ricordare l’attacco di Confindustria dello scorso anno, che di fronte alle nostre legittime richieste di controlli per il rispetto dei protocolli anticovid, ha chiesto mano libera attaccando i sindacati colpevoli, a loro dire, di “non fidarsi”.”. 

Cecchi:Il sistema ispettivo nel nostro paese è stato ridotto ai minimi termini, grazie alla controriforma operata dal Governo Renzi in materia, con l’accorpamento dei preesistenti sistemi INAIL-INPS-Ispettorati, con la mancanza di personale e le non assunzioni fatte. E poi le pressioni politiche esercitate sono non di poco conto”.

Quanto incide la formazione sulla sicurezza?

Beneforti: “Molto, moltissimo innanzitutto per creare e rafforzare la cultura della sicurezza. La formazione è centrale sia per mettere i lavoratori in condizioni di conoscere i rischi e di lavorare in sicurezza sia per rivendicare l’attuazione delle norme e proporre dal basso miglioramenti. Anche qui purtroppo la logica è troppo spesso quella del contenimento dei costi, con i corsi che non vengono fatti, o vengono fatti male, con poche ore e tirati via. Ecco perché da sola non basta”. 

Cecchi:La formazione sarebbe estremamente importante, ma come sempre va contro la logica del profitto, spesso si limita al momento della firma del Contratto alla consegna di qualche pagina con su indicate le principali misure di sicurezza. Poi ci sono anche aziende serie che ci investono sopra, ma con la parcellizzazione del mondo del lavoro sono sempre più rare”.

Secondo lei servirebbero gli inasprimenti di pena, dal momento che USB lancia la figura di omicidio di lavoro? 

Beneforti: “Inasprire le pene e prevedere fattispecie di reati specifici sarebbe un messaggio importante sotto il profilo politico e del diritto. Tuttavia da sola non basta. La logica dell’inasprimento delle sanzioni, spesso portata avanti dalla destra, ha senz’altro grande risalto mediatico ma riduce il problema ai soli termini dell’azione volta a colpire un reato già compiuto, ne fa solo una questione di repressione, tralasciando il vero punto su cui agire, che è la prevenzione e la costruzione di condizioni di sicurezza. E’ una logica che si è già rivelata inefficace di per sé. Basti pensare al reato di omicidio stradale o alla violenza sulle donne, non diminuita nonostante la trasformazione in reato contro la persona e la nascita delle aggravanti. Quello che serve è un rafforzamento delle normative, delle funzioni ispettive e delle prerogative di controllo, l’innalzamento degli standard di certificazione della sicurezza dei macchinari così come dei cantieri, il miglioramento dei dispositivi di sicurezza personali e ambientali, investimenti sui macchinari e sugli ambienti e infine maggiore e migliore formazione. Cambiare l’attuale modello di sviluppo per mettere anche le persone in condizioni di lavorare in totale sicurezza è prioritario affinché gli evitabili incidenti non avvengano mai più”.

Cecchi: A nostro modo di vedere, per arginare e debellare il crescente numero di infortuni sul lavoro e le relative morti occorrerebbe al di là dei discorsi di circostanza intervenire drasticamente per rimuovere quelle che sono in gran parte le cause principali: l’abolizione del Jobs act, che precarizza le condizioni lavorative e pone i lavoratori sotto ricatto e quindi meno propensi a denunciare le condizioni di insicurezza; rimuovere la Legge Fornero che ha innalzato l’età pensionabile, ma come si può mandare un operaio di 66/67 anni su una impalcatura? (e questo è solo un esempio); dare applicazione in toto alla legge 81/2008 e verificarne l’attuazione, ma per far questo vanno ricostruiti e potenziati i servizi ispettivi dando loro un vero ruolo di controllo. Infine occorre che il Parlamento vari una legge chiara che equipari le morti sul lavoro, in caso di negligenza della parte datoriale, in omicidio, così come è stato fatto per gli incidenti stradali. Certo far questo non sarà facile considerato il quadro politico esistente, per cui è necessario costruire un vasto movimento di opinione in tal senso, noi come USB ci siamo e lo rilanciamo sin da subito”. 

 

 

 

 

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