
Benevento – Un museo diocesano di solito non è una meta prioritaria per un visitatore frettoloso. Evoca immagini da “tesoro della cattedrale”: paramenti sacri, oggetti liturgici preziosi, pale d’altare dismesse, a volte fondi oro di un certo valore insieme a pitture molto più recenti a soggetto sacro o raffiguranti alti titolari della sede vescovile. Un percorso comunque interessante, ma senza sorprese se non la conferma della grande maestria degli artigiani che si sono succeduti nei secoli.
Andate al museo diocesano di Benevento e, sotto la stessa etichetta, troverete uno di quegli straordinari percorsi museali che si possono vedere oggi in Italia grazie ai più recenti concetti e alle più avanzate tecniche museografiche. E ovviamente grazie ai tesori che per tanti anni sono rimasto nascosti sotto la cattedrale romanica distrutta dai bombardamenti anglo-americani del 1943 e ricostruita completamente (eccetto il campanile e la facciata che rimasero in piedi) fra il 1950 e il 1965.
La scoperta di una estesa area archeologica ipogea risale relativamente a pochi anni fa. Nel 2005, quando furono avviati lavori di ristrutturazione del grande edificio religioso. Scendere sotto il piano di calpestio è come andare a ritroso nel tempo, nei primordi delle prime comunità umane e del primo affacciarsi del senso del divino. C’era una basilica paleocristiana del V secolo, i resti di un grande edificio romano imperiale (un macellum un mercato coperto), i resti di un abitato del terzo secolo avanti Cristo e ancora più indietro reperti di un luogo sacro di età sannitica fino alle tracce di un villaggio neolitico risalente al VI-V millennio avanti Cristo.
Sette anni dopo, il 18 dicembre 2012 è stata inaugurata la sezione archeologica del museo beneventano che deve ancora essere completata e che quindi è destinata a riservare nuove sorprese, sotto la guida di don Mario Santo Iadanza, Incaricato diocesano per i beni culturali, che da anni con infaticabile impegno ed entusiasmo ha aggiunto ai numerosi tesori beneventani l’offerta di una grande esperienza culturale e religiosa.
Si parte dalla pseudo-cripta (due navate con un colonnato di provenienza romana) per visitare tutto il complesso disposto su diversi livelli con passerelle e gradini. Gli ambienti che mostrano lacerti di affreschi di varie epoche fanno da cornice a pezzi di assoluto valore storico e artistico come la cattedra ferrea di San Barbato (VII secolo) , il santo che la tradizione (e un ciclo di pitture murarie) raccontano come il vescovo che riuscì a convertire al cristianesimo i longobardi ancora legati alle loro divinità pagane. Pare che il suo intervento sia stato decisivo a convincere i bizantini a togliere l’assedio alla città.
Tra i tanti tesori da ammirare, la Madonna della Misericordia della pseudo-cripta (secolo XIV) è sicuramente il più interessante l’iconografia della Mater Misericordiae proveniente dalla Chiesa d’Oriente ed entrata nella tradizione figurativa in tutta l’Italia. Si tratta di una “Madonna del parto” che accoglie nel suo grande manto santi, nobili e il popolo dei fedeli. Si resta poi a bocca aperta a leggere le epigrafi sepolcrali dei principi longobardi del IX secolo che avevano trovato la loro collocazione definitiva nell’arco superiore della facciata rimasto danneggiato durante il bombardamento. Principi e principesse dai nomi nordici e inconsueti presentati come modelli di grandi virtù.
La sezione espositiva più tradizionale (il primo nucleo fu allestito nel 1981) riserva l’ennesima sorpresa del “Canto beneventano”, risalente al periodo longobardo (VI-VIII secolo): una notazione musicale su una sola riga, che fu spazzato via dal Gregoriano e che è stato studiato e riscoperto da uno studioso americano Thomas Forrest Kelly che a Benevento è una vera autorità.
Nell’immagine: la Madonna della Misericordia, affresco del XIV secolo