
Firenze – Prima dell’omaggio che il prossimo festival dei Popoli dedicherà a novembre a Gianfranco Rosi, come suo ospite d’onore, dopo varie sale del circuito d’essai a Firenze, anche il Teatro della Compagnia di Via Cavour proietterà lunedì alle 15 e martedì alle 15 e 21 la sua ultima opera uscita a settembre a Venezia.
Dopo Sacro Gra e Fuocoammare, già celebrati e premiati l’uno col Leone d’oro, l’altro con l’Orso d’oro a Berlino, e con l’European Film Awards, questo ultimo lavoro del regista romano sembra darsi ancora nuovi obiettivi formali e sostanziali, verso un’esplorazione di autore che interpreta la realtà in un modo originale, al di là del cinema fiction, ma anche della definizione convenzionale di documentario.
Il fatto di avere a disposizione per la fotografia e le luci un maestro della qualità ed esperienza come Luca Bigazzi, recava in sé il rischio che la meraviglia delle immagini, la loro ricercatezza, finisse col prevalere sulla conoscenza della materia dolente e pulsante oggetto dell’opera , che è stata girata in Iraq, Libano ,Siria e Kurdistan per tre anni di riprese faticose e perigliose per più versi.
E il film di Rosi si è infatti attirato critiche in tale senso nelle quali la sostanza stava in una questione : fino a che punto si può fare estetica cinematografica, cesellare così le immagini, e montarle come in un prodotto di lusso sofisticato e subliminale , con i temi e le terre martoriate del Medio Oriente? Già in Assandira avevamo affrontato il discorso a proposito delle due anime profonde del cinema: la meraviglia e la conoscenza.
A volte, in grandi opere, queste due anime s’ intrecciano con armonia e potenza espressiva sublimi, e probabilmente la frontiera ultima per un cinema non di plastica e seriale come quello che il megasistema cerca di ammannirci e prepararci ogni giorno di più, sarà questo connubio sempre più fecondo. Ma è una gara ardua. Di grande ricerca e immaginazione e visione. Ci vuole tanto coraggio e sperimentare e creare nuovi linguaggi adeguati.
Qui Rosi, con Bigazzi e la sua equipe ha tentato di esplorare in questa direzione. La bellezza e la potenza di quello che ci mostra sono indiscutibili , come anche sono significative le “stazioni” del suo periplo attorno al martirio di quelle terre. Il pianto rituale ( con cui inizia il film) della madre nella prigione dove è stato torturato e ucciso il figlio perturba,ma forse è troppo insistito. O forse è volutamente insistito, come un mantra che deve attraversare lo spettatore occidentale.
La cruda asciuttezza della condizione del campo di concentramento curdo dove sono ammassati come mandrie i prigionieri ISIS, colpisce come un pugno nello stomaco, ma non si può non restare catturati anche dal rosso delle tute che poi, andando in panoramica e in campo lungo , al chiarore notturno diventanoun unico tappeto magico pulsante di onde rosso cupo la cui bellezza e stupefacenza ci fa dimenticare il rosso sangue cui possono virare, appena dopo, al sorgere d’ una gelida mattina : nel macabro pendolo che in un momento, a seconda delle oscillazioni del conflitto, li può trapassare da ostaggi a vittime sacrificali, come molti di essi avranno fatto coi loro nemici.
Geniale anche aver immaginato un teatrino per il recupero psichiatrico di vittime schiantate dai più terribili traumi bellici ; anche se i mentalist che allestiscono una sorta di psicodramma alla Moreno, sembrano un po’ improbabili e artefatti nello storytelling con cui cercano di coinvolgere i pazienti verso l’aggallo delle loro catastrofi psichiche. Certo forse è quello meno riuscito. Come è palesemente “costruito” il percorso che a scuola ragazzini altrettanto traumatizzati disegnano, nell’esternazione degli orrori delle occupazioni Isis. Un momento più poetico, seppur paradossale, è quello in una terrazza di notte sulla città tra una ragazza e il suo fidanzato, che delicatamente si sussurrano incantamenti futuri – e lui poi vestito da lei in un ritualità d’amor cortese- come un soldato di pace che va alla guerra, armato solo dei suoi canti di speranza, esce fuori nella notte cupa e ostile, a diffondere tra stradine deserte e finestre serrate e buie , e silenziose , la buona novella di Allah, malgrado tutto, perché fa il cantastorie per professione e per vocazione.
Eppoi la grazia e la femminilità- non celabili malgrado le austere tute militari- delle guerrigliere curde preparate, tenaci, lucide donne vere; la coppia di uccellatori di frodo padre e figlio che sparano ai volatili appena balugina l’aurora, e si guardano silenti e stupiti , come se fosse la prima alba dell’uomo; il leggerissimo fruscio nell’acqua dei remi su una canoa tra i canneti, mentre in controluce l’ultimo raggio di sole è un graffio dorato arrossato di rame.
Dall’oscuro di una feritoia la macchina da presa inquadra di spalle quattro soldati su un dosso che spianano i mitra, forse fuori campo stanno per fucilare qualcuno: sarebbe una scena di morte in agguato, ma l’inquadratura e il gioco di luci, nel chiaroscuro, ci catturano in una contemplazione istintiva per cui quello che vediamo, diventa comunque “bello”, anche se non è certo “buono”. L’improvviso risuonare sul selciato degli zoccoli di cavalli al galoppo che irrompono nell’assoluto silenzio notturno d’ una città nowhere totalmente deserta (guidati poi da chi ? dai nostri, dai banditi, da fuggitivi o inseguitori?), evoca per un po’ una surreale sospensione dell’incredulità : oscura minaccia tipo le moto notturne felliniane in Roma, e ancora reminiscenze western irreali o addirittura medievali. Non ti orienti, ma sei comunque percorso e perturbato da quest’apparizione
Che significa? Siamo nel territorio che già cent’anni fa, negli anni venti del secolo scorso, faceva parlare di realismo poetico francese attraverso i sapienti avvolgenti lenti piani-sequenza di Renoir e dei suoi fuori campo di potente eloquenza; o delle sinfonie della luce di Carné tra realtà e sogno . Siamo alla poesia del reale , con i lavori dell’ americano Flaherty, di cui si diceva essere “vita colta alla sprovvista” e “presa diretta sulla realtà”; ma si è sempre saputo che, se il cinema ci narra della realtà, non per questo la può mai riprodurre “così com’è” ; c’è un continuo lavoro di interpretazione di essa da parte del filmmaker, del fotografo, del montatore, dello scenografo (sì, anche lui) anche sulle lande desolate di queste zone di guerra , piene di crateri profondi provocati da bombe antiche, sul cui scola l’acqua battente della pioggia, e tu vedi trasformare, nello “sguardo” di Rosi, in meravigliose cascatelle che ti portano altrove, fuori dall’orrore. O dentro la improvvisa bellezza misteriosa dell’orrore, appena colta? O meglio, elaborata.
Il cinema, anche quello del reale, è comunque una costruzione, ma questo, Rosi, nella lezione dei maestri, lo sa benissimo, conosce i sentieri di Epstein e Ivens, ed è consapevole della strada nel documentario poetico percorsa da Antonioni, Herzog, Wenders , Sokurov.
Ma egli, uomo del primo ventennio del duemila, con artisti della luce come Bigazzi, vuole continuare questo viaggio a modo suo, con la sua arte e con altri mezzi. Sta ricercando e si interroga. Su un linguaggio e una sintassi che non vogliono inserirsi nelle gabbie equivoche e superate del cinema-verità. Va per prove ed errori. In Notturno disegna più paesaggi interiori, tra il crepuscolo e l’alba, di questo cuore di tenebra che è il Medio Oriente dal dopoguerra in poi , e lo fa cercando di fermare frammenti e volti di questa magmatica dolente realtà. A volte questa materia gli scappa di mano , ma certo il primo piano del ragazzo con cui si chiude questo viaggio resta indimenticabile.
E’ un giovane Cristo ridisceso in quest’inferno? Un testimone dello spirito del tempo? Non sappiamo. Continua ad interrogarci. Si interroga lui stesso.