
Firenze – Come poteva ottenere adesione e consenso da parte dei cittadini tedeschi confusi, disorientati e impoveriti dopo la sconfitta nel primo conflitto mondiale una repubblica il cui parlamento era denominato ancora Reichstag, dieta imperiale? E il cui presidente Paul von Hindenburg era una sorta di controfigura del guerrafondaio Kaiser Wilhelm? Non è una coincidenza della storia il fatto che la fine di Weimar coincida con l’incendio dell’assemblea della Porta di Brandeburgo che dette ai nazisti il pretesto per instaurare la dittatura.
Fu solo una delle contraddizioni di una situazione che vedeva una delle più avanzate costituzioni democratiche (1919) sovrapposta a una società percorsa da angosce, paure, da un senso di insicurezza veicolo di odio, violenza e sopraffazione.
Della patologia di una società attraversata da conflitti implacabili ci parla “Germania Anni ‘20”, l’ultima creazione di Giancarlo Sepe di scena in questi giorni alla Pergola dopo avere esordito nel suo teatro La Comunità di Roma. La cultura tedesca è sempre stata al centro dell’interesse artistico del regista- autore campano. Il suo primo successo negli anni 70 del secolo scorso fu Accademia Ackermann, uno spettacolo sul teatro nazista fatto di divertimento e crudeltà.
Germania Anni 20, che trae spunto dal recente centenario della costituzione di Weimar, è come il “prequel” di quel lavoro del 1978. Con la stessa grande sensibilità e conoscenza della cultura tedesca, Sepe mette soprattutto in luce la malattia sociale della Germania sconfitta quando il sangue e l’odio, umano e ideologico, generava mostri e fantasmi nell’anima tedesca (Seele) incline all’autodistruzione e nello stesso tempo faceva emergere il meglio del genio tedesco che in quegli stessi anni 20 in tutti i settori dell’attività umana produsse idee, pensiero filosofico, opere d’arte e anche grandi esperimenti socio-economici come l’AEG di Walter Rathenau, assassinato dai nazionalisti antisemiti.
Quanto dolore, sofferenza e barbarie nella nascita dell’immaginario e delle idee della modernità. Sepe lo racconta in un specie di musical noir (ma si potrebbe definire un tragico Singspiel) alternando l’italiano e il tedesco, uno spettacolo impegnativo che certamente richiede allo spettatore una certa conoscenza dell’espressionismo tedesco in tutte le sue forme artistiche: la pittura (Grosz, Dix), il cinema (Murnau, Lang), architettura e design (Gropius), teatro (Brecht), oltre alla musica di Kurt Weil, Ernst Křenek, Paul Hindemith e tanti altri. Molti di loro emigrarono negli Stati Uniti e Sepe ce li racconta attraverso una struggente musica ebraica.
La prima scena di Germania Anni ’20 mostra un soldato della prima guerra mondiale disteso a terra sulla bandiera della Germania imperiale. Il soldato disfatto nello spirito e nel corpo viene sollevato e rivestito con un’altra divisa. Il segno di come andrà a finire quel periodo nello stesso tempo esaltante e funesto, disumano e capace di arrivare alle vette della creazione. Militarismo e guerra, morte e distruzione. Intorno a lui una folla indistinta strilla ”Germania parla, ribellati”: “Heimat und Fahne”, patria e bandiera.
“I tedeschi non sanno che farsene della libertà”, cantano i protagonisti di questa follia collettiva nella quale hanno la peggio soprattutto le donne costrette a vendersi e a subire la crudeltà dell’uomo: dalla ragazza meccanica di Metropolis a quelle che non trovano lavoro, spinte a rubare o a prostituirsi per mangiare.
La scena di Alessandro Ciccone è una periferia berlinese che nasconde nel buio vizi e sofferenze, grazie anche al disegno delle luci di Guido Pizzuti. Nemmeno la luna, icona romantica, può offrire attimi di sollievo di fronte alla lotta per la vita, né quegli attimi di interni dove si mostrano scene ordinarie di convivenza. La drammaturgia ricca di citazioni teatrali e cinematografiche ci portano da Brecht a Lang, al cabaret Eldorado, che fino ai primi anni ’30 fu ritrovo di omosessuali e lesbiche, dove si consuma cocaina, morfina, oppio o laudano. Qui si esibisce Anita Berber, bisessuale che gioca con la sua grande gonna stringendosela alle gambe fino a farne pantaloni, una delle scene più riuscite dello spettacolo del regista che non disdegna neppure di trarre ispirazione da West Side Story.
Gli attori – cantanti sono all’altezza del grande impegno che richiede l’opera teatrale: Antonio Balbi, Sonia Bertin, Jacopo Carta, Chiara felici, Giuseppe Insalaco, Camilla Martini, Riccardo Pieretti, Federica Stefanelli, Guido Targetti e Maria Luisa Zaltron.
Alla Pergola fino a domenica 19 dicembre