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Quando Luciano Bianciardi era bibliotecario a Grosseto Cultura

Firenze – Nell’ambito del “BiblioPride 2016”  il 6 ottobre 2016, presso la BNCF, si è tenuta la presentazione del libro di Elisabetta Francioni “Luciano Bianciardi bibliotecario a Grosseto”. Del libro abbiamo parlato insieme all’autrice. 

Come ti è venuta l’idea di pubblicare un libro su Luciano Bianciardi?

“In realtà lo conoscevo solo di nome, in casa dei miei genitori c’era una copia della Vita Agra, ma non l’avevo mai letto. Poi nel ’96 mi capitò tra le mani “Vita agra di un anarchico: Luciano Bianciardi a Milano“, di Pino Corrias pubblicato nel 1993 da Baldini & Castoldi. In una pagina lessi dei suoi trascorsi come bibliotecario presso la Biblioteca Chelliana di Grosseto e della passione che lo legò per tutta la vita a questa esperienza. Decisi così di approfondire l’argomento dedicando la mia tesi di laurea agli anni “bibliotecari” di Bianciardi”.

Cosa ti ha colpito in particolare di questa vicenda?

“Nel ’44 la biblioteca Chelliana di Grosseto fu prima distrutta da un bombardamento e colpita subito dopo dall’esondazione dell’Ombrone. Impressionato da questo attacco a una sede prestigiosa della cultura, anche locale, Bianciardi capì che avrebbe potuto contribuire alla sua ricostruzione e si decise a lasciare l’insegnamento e a chiedere il trasferito in biblioteca”.

Quale fu il suo contributo?

“Bianciardi riapre una biblioteca che oltre ai danni alla struttura aveva subito danni al catalogo. Bibliotecario autodidatta, si cimenta con la tecnica della catalogazione, basandosi unicamente sulla manualistica, in cui oltre agli elementi di catalogazione trova tracce dei primi scambi tra biblioteche, già in essere nelle reti bibliotecarie di Cremona e Modena. Di queste decide di seguire il modello quando mette in piedi il Bibliobus, che portava i libri direttamente ai lettori.

Si preoccupa quindi o forse “soprattutto” dei servizi della biblioteca, dell’accesso dei lettori all’informazione che il libro contiene. Considera i libri non esclusivo appannaggio per pochi studiosi, ma patrimonio comune che deve raggiungere una più vasta utenza”.

E’ stato facile raccogliere le informazioni?

“All’inizio stavo quasi per scoraggiarmi: non riuscivo a trovare che deboli tracce. Su di un notiziario AIB (Associazione Italiana Biblioteche) ero riuscita a trovare un necrologio, in cui si legge del contributo di Bianciardi alla ricostruzione del catalogo, attività di catalogazione che produsse oltre 15.000 schede, battute a macchina.

Mi sono rivolta alla famiglia, in particolare ho cercato di prendere contatti con la figlia, poi alla biblioteca Chelliana, da oltre venti anni in corso di restauro, dove non ho potuto accedere ai cataloghi ancora impacchettati. Presso la Soprintendenza Archivistica e Bibliografica della Toscana scovai alcune lettere, sei o sette, non ricordo: uno scambio epistolare tra Soprintendenza e Bianciardi, tracce del suo percorso da neofita bibliotecario, autodidatta.

Nell’archivio AIB trovo poi accenni alla sua partecipazione a Convegni, ai suoi contributi e collaborazioni  sia sulla stampa locale che su testate più importanti, in cui Bianciardi fa riferimento al mondo delle biblioteche, di cui evidenzia l’importanza dei servizi.

Si legge in “Letture per tutti” (6, (1954), n. 4, p. 26 “…La popolazione che frequenta la biblioteca è composta in gran parte da studiosi … Nostro intento è stato sempre quello di raggiungere il maggior numero di abitanti … abbiamo pensato che bisognava raggiungere anche i centri minimi, le fattorie, tutte le zone di campagna; abbiamo perciò allestito un piccolo bibliobus … con questo furgone facciamo praticamente 15 gite mensili. In un primo tempo non è stato facile perché bisognava superare la diffidenza dei contadini, conquistare un pubblico giovane alla lettura. …”.

In tutte le sue opere si trovano segni di interesse per il mondo delle biblioteche e, in una lettera del ’54 ad un amico grossetano parla del periodo “bibliotecario” come del più bello della sua vita”.

Cosa ti rimane di questa esperienza, cosa hai imparato?

“La vita di Bianciardi, figura umana di grande fascino, cultura e umanità, che apparteneva alla leva dei giovani ricostruttori, mi ha appassionata. Per me è stata una scoperta, che mi ha aiutata a capire meglio quegli anni, soprattutto lo spirito che li animava, sotto il segno della ricostruzione italiana, quando si intendeva portare la cultura, le idee  alle masse popolari. Mi ha dato soddisfazione colmare una lacuna relativa al periodo “bibliotecario” della sua vita, ma soprattutto questa ricerca ha suscitato un grande amore per il personaggio”.

Ma allora cosa lo porta a lasciare Grosseto e a trasferirsi a Milano?

“La cesura con Grosseto scatta quando nel maggio del 1954 un’esplosione uccide 43 lavoratori nella miniera di Ribolla. Questo grave evento, i cui responsabili non furono mai perseguiti, lasciò una traccia profonda di rabbia e di sconforto nell’anima di Bianciardi, che ne resta traumatizzato. Di fronte ad una simile tragedia tutto si ridimensiona ai suoi occhi e desidera rimettersi in gioco con un altro tipo di impegno. Nel frattempo Bianciardi, che tra il ’50 e il ’51 aveva conosciuto la scrittrice e poetessa Maria Jatosti, con la quale aveva intessuto in seguito una relazione clandestina, decide di lasciare il mondo della provincia e la raggiunge a Milano, dove inizia la sua collaborazione alla realizzazione della Casa editrice Feltrinelli”.

Come mai hai pubblicato solo adesso il libro?

“Si tratta principalmente di un problema di natura economica. Finalmente, per una serie di coincidenze fortuite, ho avuto il finanziamento della Regione Toscana (1.000 euro) e il suggerimento di Alberto Petrucciani di pubblicare con la casa editrice di AIB. Inoltre, una soddisfazione non indifferente è stata l’affermazione di Arnaldo Bruni, studioso di Bianciardi,  quando mi ha detto di essere stato entusiasta di poter rileggere “Il lavoro culturale” con un’altra chiave di lettura”.

La conversazione si conclude così.

 

 

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